Recensione in anteprima – Quinto film di Damien Chazelle che torna a far parlare la storia del cinema in questo suo nuovo film sulle immancabili note jazz. “Babylon” dura oltre tre ore, forse troppe, ma è esagerato, oltremisura per gran parte del suo scorrere, come un film, travolgente nel bene e nel male. Al cinema dal 19 gennaio.
La storia della storia della storia…
A Hollywood, nel 1926, nel corso di un party scatenato si incontrano l’aspirante attrice Nellie (Margot Robbie) e il messicano Manny (Diego Calva), che lavora come aiutante presso la casa di produzione Keystone. Dopo la morte per overdose di un’attrice, Nellie, bellissima e senza freni, ha finalmente l’occasione di sfondare, mentre Manny, che fin da subito s’innamora di Nellie e la protegge dal suo stesso stile di vita forsennato, diventa amico della star in declino Jack Corran (Brad Pitt).
Il passaggio dal muto al sonoro stravolgerà la città del cinema: incapace di adattarsi al sonoro e travolta dalla relazione con la cantante Lady Fay Zhu (Li Jun Li), Nellie si perde in una spirale d’autodistruzione, mentre Jack vede progressivamente sparire il suo nome dai cartelloni. Il solo Manny sembra farcela, scalando i vertici del sistema, ma anche lui finirà per essere travolto dal destino della nuova Babilonia…
Condensare in poche parole la trama e la storia di “Babylon” non è semplice. Non sono le oltre tre ore di durata (che si “sentono” tutte) a rendere complicato il riassunto ma la materia che il film abbraccia. Si parla di cinema creando il cinema. Un dietro le quinte concentrati tra la fine degli anni 20 e la prima metà degli anni 30 del secolo scorso. Ma non è un ennesimo film che parla di cinema autocelebrandosi. Si entra ed esce dalla scena sul set in una commistione tra vita reale e vita ripresa dalle telecamere. Un racconto circoscritto a quegli anni che sbatte in faccia allo spettatore di tutto, senza alcun risparmio.
Fabbrica di sogni (e di incubi) esagerati
“Babylon” attraversa tre diverse incarnazioni dell’arte cinematografica in quei pochi anni. Parte subito con una festa sfrenata, forse un po’ troppo lunga nella durata ma giustificatamente volgare, sopra le righe, senza freni ed inibizioni sessuali o sociali. Alcol, sesso, droga a fiumi e in grande quantità per una vasta ma ristretta cerchia di attori, produttori, comparse, ballerine, prostitute, ecc… Nell’opulenza e ricchezza più sfrontata negli abiti, nel cibo, nei gioielli, nelle auto.
Un monto a parte figlio del divismo, della libertà di pensiero e di azione soprattutto maschile. Una visione efficace ed eccessiva che fotografa la festa prima del cambiamento. Un cinema che per Nellie e Manny è l’ambizione per realizzare i propri sogni e per Jack la conservazione di quello stato da divo per il quale è disposto a sacrificare la sua vita vera con la moglie.
La seconda incarnazione riguarda l’avvento del sonoro con tutti i problemi tecnici, sociali, lavorativi e di nuova resa sul pubblico. Gli attori e le attrici rese celebri dal muto scoprono di avere una voce e delle battute che, sentendosi non sono più così efficaci, così “da sogno”. Chazelle dimostra di conoscere la storia del cinema nei minimi particolari incastrando la cinepresa (finta, di scena) all’interno di un box per non disturbare con il rumore il sonoro delle battute… oltre a descrivere con cinismo (e una delle scene più esilaranti) le condizioni lavorative di tante maestranze.
La realtà, attore o spettatore?
Una terza incarnazione riguarda l’attore o l’attrice nel confronto con la realtà. “Babylon” narra principalmente quattro grandi storie, quelle dei quattro protagonisti (compreso il personaggio di Sydney Palmer (Jovan Adepo)) che affrontano l’arte cinematografica in modo diverso ma con la stessa voglia di essere ricordati, idolatrati, realizzati nelle diverse forme a disposizione.
Si tratta di comprendere attraverso il percorso di questi tre personaggi, se essere attore o spettatore della propria vita. Agli eccessi, accettandosi, riscoprendosi. C’è chi salva e chi non vuole essere salvato, chi vomita letteralmente addosso agli altri ciò che si sente di essere, così pericolosamente. Si tratta di sopravvivere alla propria vita o al proprio personaggio.
E’ una ricorsa continua ed irrequieta per trovare il proprio ruolo anche quando non si vorrebbe anche quando non si sta andando da nessuna parte. Un Brad Pitt ispirato, una Margot Robbie molto ben a suo agio negli eccessi del suo personaggio e un cast di supporto molto ben diretto rendono “Babylon” anche specchio della fama effimera ma che con i film può essere ricordata in eterno.
Tanto, forse troppo
“Babylon” ha un’ottima colonna sonora, il suo ritmo jazz, immancabile nei lavori del regista, è coinvolgente e sembra autocitarsi in alcuni passaggi che ricordano le melodie di “La La Land”. Il film ha un’ottima regia che, comunque alterna ritmi da videoclip a lunghi piano sequenza, riprese ardite a inquadrature più razionali. La sceneggiatura è un otto volante e non sempre da’ il giusto ritmo alternando scene molto ben dialogate e strutturate a scene di passaggio che allungano una narrazione inutilmente.
Il film cerca anche di attraversare diversi generi, dalla commedia al dramma, dal sentimentale all’action, dalla parodia all’horror senza riuscirci sempre e senza risparmiarsi l’erotico e il thriller. Tra “C’era una volta a … Hollywood”, “Ave, Cesare!” e un pizzico di “The Fabelmans” con quel tocco di “Whiplash” e quella dinamica di coppia alla “La La Land”
Damien Chazelle offre nuovamente un’opera al pubblico che sbalordisce ma che sembra essere eccessiva in tutto, forse troppo. C’è veramente tanto in “Babylon” persino un ottimo Tobey Maguire in uno dei personaggi più stravaganti. La parte finali poi è una dedica all’arte cinematografica, un po’ ruffiana, ma che una lacrima, dopo tanto correre e tanto eccesso, riconcilia con un forse lungo e forse lento ma dolce atterraggio. La “batteria” finale dei fuochi d’artificio davanti alla quale, con una buona musica, dei bei ricordi, non ci si può non commuovere almeno un po’. Il rischio che questo “Babylon” sfoci nel mero esercizio di stile rimane, per tutto il film, sottraendo concretezza ma lasciando quella vena di sogno (e di incubo) propria dell’arte cinematografica.
Voto: 7