Recensione in anteprima – Quinto lungometraggio per il regista britannico qui anche sceneggiatore. Arriva nelle sale italianane “Civil Dar” il film distopico tanto atteso su una futura nuova guerra civile americana. Un film denso, crudo, violento che fotografa situazioni di tensione non troppo lontane dal presente. Al cinema dal 18 aprile.
La storia
In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel (Wagner Moura) e la fotografa Lee (Kirsten Dunst) hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti (Nick Offerman), da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile.
Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la giovane fotografa Jessie (Cailee Spaeny), che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.
L’inizio del film fa entrare subito nel vivo della vicenda lo spettatore. Ma lo spettatore non viene minimamente preparato a quanto sta accadendo. Il presidente USA appare in tv trincerato nella sua sede di potere e, a parole, cerca invano di ribadire la sua vuota autorità attraverso proclami che appaiono ipocriti e lontani dalla realtà.
Lo spettatore non ha notizie sulla situazione, sugli schieramenti, sulle parti in gioco. Inizia a comprendere quanto sta accadendo attraverso le immagini e soprattutto attraverso le parole dei giornalisti protagonisti della vicenda.
Lungo la strada
Il punto di vista dei protagonisti è un punto di vista ovviamente ristretto, a volte parziale ma soprattutto neutrale. L’obiettivo di questo gruppo eterogeneo per età, esperienza e capacità è l’intervista al presidente proprio nel momento della sua capitolazione. E’ un gruppo che intraprende un viaggio come avviene spesso nei film distopici che comprendono aree in conflitto.
L’attraversamento di gran parte di quel che resta degli Stati Uniti è pieno di scenari di distruzione, di abbandono, di degrado sociale. Emblematica è la scena dell’elicottero distrutto nel parcheggio di un supermercato abbandonato. La potenza militare americana e la potenza commerciale riunite in una sola scena e abbattute, letteralmente.
Lungo la strada, il gruppo di protagonisti incontra situazioni al limite del inverosimile e del paradossale. Spesso è un tutti contro tutti senza sapere le motivazioni reali che oppongono le parti. Basta essere diversi, basta essere nati in stati più a sud o più a nord di quello di nascita di chi ti sta puntando un fucile. Ed è così che nasce, probabilmente, la scena migliore e più tesa dell’intero film. E’ la scena che vede coinvolto il bravissimo Jesse Plemons. Attore che eleva il contributo della recitazione che, fin lì, era stata accantonata per una forzata ed efficace distanza emotiva chiesta ai protagonisti per riprendere e fotografare una realtà nel più neutrale dei modi.
Il botto finale
A metà film quindi il racconto cambia passo. Si fa più coinvolgente, più emotivo. Anche veterane del giornalismo iniziano a vacillare di fronte alla realtà dei fatti. La regia si fa anche più provocatoria mettendo in parallelo la violenza di quanto accade nel film con quanto vissuto dalla fotografa Lee nella sua lunga vita da giornalista al fronte. Immagini di torture atroci che sono prese direttamente dalla realtà di posti africani, mediorientali, etc.
Il viaggio diventa quindi un crescendo di incontri e scontri. Spesso surreali come la pacifica cittadina oppure lo scontro, in assetto di guerra, tra vicini. Il ritrovo di tanti che si accampano in uno stadio del football che fino a poco tempo prima era stato teatro di ben altri incontri di massa suggella la ferita profonda della società americana. Come la distruzione di luoghi culturali simbolo è un attacco senza sconti alla sua storia.
Alex Garland fotografa, nel vero senso della parola, una possibilità futura che sembra parlare al presente e che nel presente ha le sue radici. Con alcuni difetti e forzature soprattutto nella prima parte e con una seconda che invece incolla lo spettatore allo schermo il messaggio del film non è esplicito ma è forse, fin troppo chiaro. Film evento che fa riflettere e che si spera non venga sfruttato politicamente da nessuna delle parti. Non è questo il suo scopo.
Voto: 7,8