Recensione in anteprima – Venezia ’23 – In concorso – Diciannovesimo film del regista francese Luc Besson. A 4 anni da “Anna” e dopo diversi anni dall’ultimo suo successo di pubblico il regista propone al Lido un film coraggioso e, finalmente, di buon livello qualitativo. Una storia di abusi e violenze subite che plagiano il protagonista nella sua personale ricerca di giustizia, serenità, Dio. Al cinema dal 5 ottobre.

La storia

Cresciuto nel New Jersey tra le violente angherie del padre (Clemens Schick) e del fratello (Alexander Settineri), che lo tengono prigioniero nella gabbia dei cani da combattimento, il giovane Douglas (Caleb Landry Jones) arriva all’età adulta con enormi ferite psicologiche e fisiche, essendo confinato alla sedia a rotelle con il precario uso delle gambe. Solo i suoi adorati cani gli danno sollievo: sono addestrati a rispondere a ogni suo comando, e per conto del loro padrone aiutano i bisognosi e rubano nelle case dei ricchi.

Il film ha inizio con l’arresto di Douglas. Il suo abbigliamento, le sue risposte, i suoi atteggiamenti non permettono ai poliziotti di “inquadrarlo” e viene quindi chiamata una psichiatra, Evelyn (Jojo T. Gibbs). Luc Besson decide di raccontare la storia passata di Douglas proprio attraverso il dialogo con Evelyn.

Si tratta di un dialogo che inizia come interrogatorio, diventa racconto e pian piano si fa confronto. Il rapporto tra i due cresce, è insolito ma la storia di Douglas risulta, per lo spettatore, affascinante e terribile.

Azioni e reazioni

Come già presente in “Joker”, i traumi subiti durante l’infanzia e la gioventù possono forgiare una reazione non totalmente in linea con la legalità. Si tratta di una reazione che può sfociare nella vendetta, nella giustizia privata ma Douglas reagisce creandosi una vita  con la sua nuova famiglia, i cani, che, secondo lui hanno un solo difetto: si fidano degli uomini.

“Se non ti piace la tua immagine allo specchio, allora cambiala”

questa una delle risposte di Douglas a Evelyn per giustificare il suo abbigliamento. Si tratta di una filosofia di vita che percorre tutta la storia di Douglas. Ciò che non piace della sua famiglia lui cerca di combatterlo, dapprima timidamente poi coraggiosamente. Il suo aspetto fisico si trasforma, i suoi interessi cambiano, ma non cambia il suo amore per i cani. Fedeli amici, fedeli compagni di avventura, ripristino della giustizia e scorribande.

Come novello “Peter Pan” Douglas cerca di riequilibrare il suo piccolo mondo di conoscenze. E’ un supereroe senza super poteri, menomato nel fisico e nella psiche ma che ha un buon cuore. Un buon utilizzo della sceneggiatura e della caratterizzazione del personaggio permettono a Caleb Landry Jones un’interpretazione straordinaria.

Dog and God

Regista francese per un film in lingua inglese e la relazione tra cane e Dio riesce più immediata. “Dog” è “God” al contrario. Stesse lettere, un semplice anagramma che si fa spazio in alcune scene anche con una certa evidenza grafica. Tutto il film comunque rimanda a una religiosità e credenza in Dio che è molto diversa a seconda dei personaggi che si incontrano.

Padre e fratello di Douglas risultano dei fanatici bigotti che non mettono in pratica nulla di quanto leggono o apprendono tramite la Bibbia. Douglas ne condivide un certo spirito, è fortemente credente a livello personale ma è ugualmente violento. “DogMan” presenta anche delle immagini create utilizzando la croce come simbolo incastrando il protagonista in una scenografia che, al tempo stesso è veicolo narrativo.

“Il cane è il dono di Dio a chi ha una ferita che procura dolore”

Questo l’incipit del film che troverà anche soluzione nella scena finale. Un film che tiene lo spettatore sempre in tensione e in modo fortemente ematico con il protagonista che racconta la sua storia per tappe. Malgrado, in questo caso, il fine non giustifica i mezzi, la figura di Douglas è molto ben scritta ed interpretata. Il film è sicuramente da vedere.

Voto: 8

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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