Recensione in anteprima – Il biopic di Baz Luhrmann, presentato in anteprima mondiale alla scorsa edizione del Festival di Cannes e accolto con dodici minuti di standing ovation, sarà al cinema dal 22 giugno 2022, distribuito da Warner Bros Pictures.

Impersonare Elvis

Quando si parla della realizzazione di un biopic, si dice sempre che è facile scadere nell’imitazione e che l’attore protagonista ha una grossa responsabilità. Questo è sempre vero, ma stavolta la responsabilità è davvero enorme, perché non solo stiamo parlando di una leggenda vera e propria, di uno degli artisti più impersonati in tutto il mondo nei modi più disparati, creativi e anche grotteschi. Tutti sanno che a Las Vegas ci sono diverse cappelle dove è possibile farsi sposare dal Re del Rock, per dirne solo una.

Nonostante tutta questa pressione però, Austin Butler è un interprete eccezionale. In ogni sguardo, in ogni movimento e in ogni parola, detta o cantata, l’essenza di Elvis c’è, e la somiglianza è incredibile. Un aspetto sottolineato anche dalla stessa Priscilla Presley.

“Mio marito era qui, oggi”

avrebbe detto a Luhrmann subito dopo aver visto il film per la prima volta.

“Senza di me Elvis non sarebbe mai esistito”

Così Tom Hanks, il Colonello Tom Parker, comincia a raccontare una storia che, soprattutto all’inizio sembra più la genesi di un supereroe, che l’esordio di un cantante Rock’n’roll. Del resto, questa è una definizione che a Elvis sta stretta: lui del Rock’n’Roll è il Re. E così il manager senza scrupoli e dal passato misterioso, che trattiene la sua gallina dalle uova d’oro in una prigione invisibile, diventa il super villain di questo scintillante albo a fumetti.

Il Colonnello Parker è entrato nella storia con Elvis, e per questo il suo punto di vista per raccontare Elvis è imprescindibile. Il suo modo cinico e impietoso di gestire un così grande talento ha stravolto le regole della professione dell’artist manager, e non è un caso che Parker sia stato individuato da molti come il vero responsabile sia dell’ascesa che della caduta del Re.

La sceneggiatura, così come per Il Grande Gatsby, si apre con un narratore esterno per poi lasciare spazio alle immagini che si alternano velocissime, a volte addirittura si affiancano, in un montaggio dai ritmi serratissimi.

Una questione di ritmo

E così il ritmo dei movimenti studiati meticolosamente, si sposa perfettamente con il montaggio frenetico, e quel southern drawl caldo e avvolgente, con il brillante mix di stili musicali così diversi ma al tempo stesso così compatibili tra loro. Il gospel e il soul fanno da padroni, perché sono state le più importanti influenze su Elvis, nato e cresciuto in quartieri afroamericani, ma c’è spazio anche per interpreti e generi molto più moderni, immancabile tradizione del cinema di Luhrmann.

La sala del cinema diventa quindi un vertiginoso caleidoscopio di colori sgargianti e iper-saturati, musiche e movenze travolgenti. In effetti la narrazione non è mai trascinata né mai appare lenta, nonostante il film tocchi le due ore e quaranta. Tuttavia, questa è una scelta stilistica che può comportare degli effetti collaterali: per seguire la storia bisogna stare dietro fin da subito a un vortice di immagini, colori e suoni, e può capitare che, soprattutto nella parte iniziale, alcuni dettagli sfuggano allo spettatore travolto dal ritmo.

Elvis ha lasciato l’edificio

Una storia esagerata ed eccentrica perfetta per il personaggio che Elvis è stato e continua ad essere, perfetta per la sua esagitata fanbase di allora e di oggi e perfetta per la visione cinematografica di Baz Luhrmann.

Voto: 8

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