Recensione – 70 anni – Il 15 marzo del 1952 usciva nelle sale italiane Don Camillo, primo capitolo di una celebre serie cinematografica che avrebbe caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta.
Diretto da Julien Duvivier e interpretato da Fernandel e Gino Cervi, il film venne tratto dai primi racconti del Mondo Piccolo di Giovannino Guareschi (pubblicati nel 1948 da Rizzoli) e descrisse, con particolare arguzia, l’eterna contrapposizione tra comunismo e cattolicesimo nell’immediato dopoguerra italiano. La Brescello di Don Camillo e del sindaco Peppone è una realtà che non esiste più, e che oggi è possibile raccontare solo attraverso le pellicole e i libri. Anche per questo, film come Don Camillo, oltre alla cifra artistica indubbia, hanno un’importanza storica molto rilevante, utile soprattutto per le giovani generazioni.
Andiamo dunque a riscoprire l’opera più dettagliatamente, immergendoci nel bianco e nero del magnifico cinema italiano classico.
Il sindaco e il prete
1946. In una cittadina della Bassa Padana, viene eletto sindaco il militante comunista Giuseppe Bottazzi, detto Peppone (Gino Cervi). Gran lavoratore ed ex partigiano, viene acclamato da tutti già nel suo comizio d’insediamento: l’unico che non approva apertamente è Don Camillo (Fernandel), reazionario convinto, tanto da interrompere la pubblica riunione a suon di campane. In realtà, il sindaco e il prete sono amici di vecchia data, ma conoscono l’uno dell’altro pregi e, soprattutto, difetti: non si risparmiano mai negli scontri verbali – e, talvolta, persino fisici – e difendono ciascuno le proprie posizioni.
Dopo poco tempo, Peppone annuncia una grande novità: la prossima costruzione della Casa del Popolo. Don Camillo, risentito poiché sperava di ottenere a sua volta dei fondi per completare i lavori del suo nuovo oratorio, arriva a minacciare il sindaco di raccontare a tutti la provenienza di quegli introiti destinati alla sede dei compagni: grazie a questo mezzuccio riesce a ricavare per la parrocchia una parte di quel denaro.
Questo è solo uno dei tanti dispetti che Don Camillo e Peppone si scambiano continuamente. Tra di loro, però, vi è un rispetto reciproco determinato dal fatto di essere, in fondo, due facce della stessa medaglia, parti della stessa società che non può prescindere tanto dalla politica quanto dalla fede cattolica…
Il turbolento dopoguerra italiano
Il compromesso storico tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista avverrà soltanto negli anni Settanta, nel difficile periodo del terrorismo politico. In realtà, già all’interno dell’Assemblea Costituente del 1947, il dialogo tra le forze politiche democratiche fu fondamentale, tanto per dare una Carta Fondamentale all’Italia, quanto per calmare una situazione sociale molto tesa, in un Paese appena divenuto una Repubblica ma alle prese con una ricostruzione parecchio complicata dopo la tragedia collettiva della Seconda guerra mondiale, e con una richiesta di lavoro enorme rispetto all’offerta reale.
È dunque addirittura precedente al 1° gennaio 1948 (con l’entrata in vigore della Costituzione) il periodo nel quale Giovannino Guareschi ambientò i primi racconti con Don Camillo e Peppone: nonostante la raccolta degli stessi verrà pubblicata successivamente e il film verrà girato a distanza di qualche tempo, nella pellicola si ritrova esattamente quell’atmosfera che in tutta Italia, ma specialmente al Nord, si respirava subito dopo la fine del conflitto.
Una commedia non serena
Nonostante l’opera di Duvivier resti nel tono della commedia, e le azioni dei protagonisti non abbiano mai conseguenze drammatiche, si percepisce come la situazione non sia serena, ancorata su nette divisioni: il reazionario e il comunista, il prete e il sindaco, l’uomo di Dio e quello del Popolo. Nell’era post ideologica che la politica italiana e internazionale sta vivendo (e non sempre questo è da considerare con accezione positiva), fa persino sorridere osservare litigi, scontri, offese da una parte verso l’altra. Ma questo, a quell’epoca, era del tutto normale; anzi, assolutamente essenziale in una nuova democrazia, che nel vivace scontro tra maggioranza e opposizione scacciava definitivamente il passato buio del fascismo.
Quasi sempre, però, nel film le questioni si risolvono per il meglio e ci si ritrova davanti a un bicchiere di vino, mentre fuori la vita del paesino scorre più o meno tranquilla. Don Camillo e Peppone non dimenticano mai di conservare un rapporto sincero e di aver condiviso tanto tempo insieme, ciascuno dalla propria parte. Sono entrambi parte della medesima comunità e si apprezzano l’un l’altro, e anzi rappresentano dei riferimenti cui nessun cittadino può rinunciare. Entrambi hanno aspetti apprezzabili e altri detestabili del loro carattere, ma sono due buone persone. Politica e fede possono e debbono convivere, perché corpo e anima sono inscindibili: ecco perché, in realtà, Peppone e Don Camillo di fatto anticipano il compromesso storico di quasi trent’anni. Sono nettamente più avanti con i tempi rispetto a moltissimi altri personaggi (reali) del dopoguerra italiano: la pacificazione è, molto spesso, la risposta che non viene mai cercata da chi deve occuparsi delle importanti questioni che riguardano il bene comune delle persone.
Il Mondo Piccolo di Guareschi
Pur essendo stato prodotto da Giovanni Amato per Rizzoli Film, Don Camillo venne affidato a un regista e uno sceneggiatore francesi, ovvero Julien Duvivier e René Barjavel. Anche molti attori e attrici furono transalpini, e del resto la pellicola venne recitata prevalentemente in francese (e poi doppiata nella versione italiana). Un’impronta duplice che nel film si percepisce in maniera evidente: pur conservando lo spirito ruspante dello scrittore e umorista emiliano e la ricostruzione delle ambientazioni nei teatri di posa sia assolutamente fedele all’originale, Don Camillo ebbe dei tempi narrativi abbastanza dilatati, rispetto alle commedie italiane molto più stringate dei primi anni Cinquanta.
Oltretutto, il nostro cinema stava iniziando a superare il neorealismo grazie ad autori emergenti (ad esempio Fellini, Comencini, Monicelli) raccontando la realtà con uno stile innovativo e scritture più strutturate, rispetto a quelle più essenziali delle storie dei singoli individui alle prese con le difficoltà enormi del dopoguerra.
La fusione tra Italia e Francia avvenuta con Don Camillo produsse un risultato a metà strada tra la tradizione tardo neorealista ancora attenta al contesto sociale, il cinema in rinnovamento (dove le interpretazioni hanno un’importanza fondamentale tanto quanto la storia che si narra, e l’esempio lampante è la straordinaria coppia formata da Fernandel e Cervi) e l’attenzione alla forma più tipicamente transalpina, un aspetto riscontrabile in alcune precise scelte nella regia di Duvivier, soprattutto nelle sequenze che si svolgono tra le strade del paese e che mantengono un certo rigore anche nella disposizione in scena degli interpreti.
Il rapporto con Gesù Cristo
L’aspetto certamente più singolare, e che sfugge ai formalismi, è il rapporto descritto da Guareschi tra Don Camillo e Gesù Cristo: il Crocifisso esposto nella navata centrale della chiesa cittadina parla con il prete, per riprenderlo rispetto alle prese di posizione spesso discutibili del sacerdote.
Il Crocifisso parlante è la voce della coscienza di Don Camillo, che sa spesso di sbagliare ma non se ne preoccupa più di tanto. Ma è anche il pensiero dello stesso Guareschi, il quale cerca di trovare un punto d’incontro tra le azioni del prete, quelle del sindaco e quelle di cui ogni buona persona (ancora prima che un buon cristiano) dovrebbe essere protagonista. Lo scrittore venne spesso accusato di non essere politicamente identificabile: con le opere del Mondo Piccolo fornì una visione molto ampia del suo punto di vista. Nessuno è totalmente nel giusto, nessuno sbaglia solo perché appartiene a una parte piuttosto che a un’altra: tutti condividiamo la stessa terra, in cerca di un tranquillo spiraglio di cielo.
Voto: 7