Recensione – Il secondo film che vede Aaron Sorkin autore della regia, oltre che della sceneggiatura, è The trial of the Chicago 7. La narrazione del famoso processo vale al film diverse nomination agli Oscar 2021 ed è disponibile nel catalogo di Netflix.
Un processo politico
Il processo al centro della pellicola è quello che si è tenuto negli ultimi mesi del 1968 e che ha visto accusati 7 esponenti delle proteste contro la Guerra in Vietnam. L’accusa è quella di aver incitato alla rivolta violenta e di aver provocato gli scontri fra manifestanti e Guardia Nazionale nell’agosto del ‘68 in occasione della convention nazionale del Partito Democratico a Chicago.
Gli accusati sono chiaramente dei capri espiatori per una condanna generica verso la sempre maggior influente rivoluzione culturale in atto. Provenienti da estrazioni sociali, ideologie e modus operandi differenti essi sono: Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), Jerry Rubin (Jeremy Strong), Tom Hayden (Eddie Redmayne), Rennie Davis (Alex Sharp), David Dellinger (John Carroll Lynch), Lee Weiner (Noah Robbins), John Froines (Daniel Flaherty) e Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II).
La difesa di quasi tutti loro viene gestita dalla coppia di avvocati Leonard Weinglass (Ben Shenkman) e William Kunstler (Mark Rylance) tranne quella di Bobby Seale, il cui avvocato è ricoverato in ospedale. L’accusa è invece affidata dal procuratore generale a Tom Foran (J. C. MacKenzie) e Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt).
L’ottavo accusato, Bobby Seale, è stato presente a Chicago per sole 4 ore e non ha partecipato alle rivolte; è chiaro fin da subito infatti come la sua presenza in aula sia da attribuire al solo fatto di essere co-fondatore del movimento delle pantere nere, famoso per la lotta in difesa dei diritti civili del popolo afroamericano. Il processo si dimostrerà essere una vera e propria farsa: dalle ingiustificate accuse di oltraggio alla corte nei confronti di accusati e difensori legali, alla sostituzione di giurati intenzionati a scagionare gli imputati, fino all’arresto di Bobby Seale.
Difficoltà di realizzazione
L’esegesi dell’opera è stata lunga e travagliata: il primo ad avere l’idea per questo film è stato Steven Spielberg nel 2006, il quale aveva commissionato la stesura della sceneggiatura allo stesso Aaron Sorkin. Negli anni successivi la produzione del film ha subito rallentamenti e si è bloccata più volte, a causa di scioperi del settore e dell’elevato budget richiesto.
La produzione finale del film è stata possibile grazie al successo ottenuto al botteghino dal primo film da regista di Sorkin (Molly’s Game) e dalla revisione del cast: dapprima pensato composto da sole star acclamate, poi da attori sconosciuti al grande pubblico ed infine si è trasformato in quello attuale; Spielberg ha ricoperto un ruolo di produzione e assistenza al progetto.
Il budget finale del film è stato di 35 milioni di dollari, di cui ben 11 dedicati ai compensi del cast. Causa Covid-19 il film non è stato distribuito nelle sale cinematografiche, ma Netflix ne ha acquisito i diritti per 56 milioni di dollari. Grazie alla parziale riapertura delle sale Netflix ha prima presentato il film in alcune limitate sale statunitensi, per poi renderlo disponibile nel proprio catalogo a partire dal 16 ottobre 2020.
Punti deboli
Quella che vediamo rappresentata sullo schermo appare essere una vicenda forte, simbolo di quel famoso anno di rivolte culturali che è stato il 1968. Quello che manca però è l’ingrediente capace di rendere un film davvero indimenticabile. Perché sì, The Trial of the Chicago 7 è un film purtroppo dimenticabile.
Ciò che porta in dote sono delle prove attoriali interessanti e ben orchestrate inserite in una vicenda che, nonostante la mole di episodi memorabili nella svolta generazionale del biennio 1968/69, ne è una significativa rappresentante. Sfortunatamente il film soffrirà la lotta con il tempo, poiché incapace di segnare l’immaginario dello spettatore. Il razzismo latente di un giudice retrogrado (Julius Hoffman interpretato da Frank Langella), il muro legislativo contro cui cozzano i protagonisti, la sensazione di lottare contro il proprio tempo e di far parte di un movimento che è destinato a cambiare il mondo.
Gli ingredienti ci sono, ma la ricetta è sbagliata. Il risultato è un film discreto, interessante perché la storia narrata lo è, ma senza un linguaggio chiaro e distinto. Un’accozzaglia di buone intenzioni e cause giuste non basta a fare del secondo film di Sorkin un grande film. La direzione di Sorkin si dimostra inefficace nel raccontare una storia come questa, incapace di gestire i tempi del film in modo esatto e di dare all’opera il taglio che meriterebbe. L’eccessiva durata provoca un senso di ridondanza nell’ultima parte di vicenda, in cui in mancanza di Seale, la struttura narrativa compie solamente dei giri su ste stessa.
Il ruolo di Bobby Seale va incontro ad un climax che culmina con la sua rimozione dal tribunale, regalando così al film la miglior nota drammatica, ma perdendo poco dopo la metà della sua durata uno degli elementi di maggior attualità che avesse. Con la scomparsa di questo elemento il film gioca tutte le sue carte sulla satira politica, senza riuscire a incidere.
Verso le statuette
Il film in totale vanta 6 candidature ai prossimi premi Oscar in programma per il prossimo 25 aprile come: miglior film, migliore sceneggiatura originale, miglior fotografia, miglior montaggio e miglior canzone, oltre alla nomination a Sacha Baron Cohen come miglior attore non protagonista.
La candidatura di quest’ultimo all’Oscar appare stiracchiata se non insensata; la decisione di candidare l’attore si deve probabilmente al diverso ruolo che interpreta rispetto al noto Borat e alla figura che interpreta, rivoluzionario pacifico ma anche gradasso e incosciente idealista. Ma in un film dove un vero protagonista non c’è, perché dovrebbe passare inosservata l’interpretazione dell’avvocato della difesa di Mark Rylance? Impeccabile e credibile. Nota di merito anche per Eddie Redmayne, che recita come al suo solito, ma un personaggio perfettamente su misura.
Voto: 6.5