Recensione – Tra i titoli che hanno ricevuto diverse nomination ai prossimi premi Oscar (che andranno in onda il 10 marzo) c’è anche American Fiction, un film di cui non si sapeva quasi niente e che non ha goduto della distribuzione nelle nostre sale. Lo si può trovare nel catalogo di Amazon Prime Video dal 27 febbraio.

La trama

Thelonious “Monk” Ellison (Jeffrey Wright) è un professore di lettere e uno scrittore. Sia come scrittore che come professore non riscuote un grande successo perché ricerca la complessità e la qualità in un mondo ormai dipendente dalle banalità morali. Monk viene sospeso dal proprio incarico di insegnante proprio a seguito di una discussione con una studentessa sull’utilizzo delle parole a sfondo razziale.

La situazione familiare del protagonista è anch’essa molto difficile: alla madre Agnes (Leslie Uggams) viene diagnostica la sindrome di Alzheimer e la sorella, Lisa (Tracee Ellis Ross) muore di infarto. Quest’ultima era la sola a dare supporto alla madre perchè Monk e Clifford (Sterling K. Brown), il terzo figlio, si sono allontanati dalla casa natale appena possibile.

All’interno di questo quadro si muove Monk, il quale decide di scrivere un libro-farsa in cui per scherzo propone al pubblico ciò che desidera: l’ennesima storia infarcita di clichè sulle vite degli afroamericani, ricca  di droga, rapper, situazioni allo sbando e violenza.

L’esperimento di Monk ottiene risultati che nemmeno lui avrebbe potuto prevedere: il libro diventa un best seller e lo rende, al contrario dei suoi lavori precedenti, molto ricco. Egli dovrà decidere quanto insistere con la farsa (interpretare il fittizio autore del libro, uno sconosciuto detenuto evaso dal carcere) e come conciliare il proprio disgusto per il mondo con le relazioni interpersonali.

Dalla scrittura alla regia

American Fiction rappresenta l’esordio alla regia di Cord Jefferson (sceneggiatore e consulente  di serie tv acclamate come Succession, The Good Place, Watchmen). Egli ha in questo caso adattato liberamente il romanzo Cancellazione di Percival Everett.

L’ipocrisia che trasuda quest’opera è chiara e costringe lo spettatore a domandarsi, come fa il protagonista, quale sia la differenza fra ricerca e banalità, fra realtà e finzione. Fino a quale punto è giusto spingersi per assecondare il mercato? Fino a che punto è conveniente – o almeno utile – conservare le proprie posizioni maturando distacco e misantropia?

Un messaggio difficile da consegnare

Le 5 candidature con cui l’Academy ha premiato il film sembrano ironicamente alimentare la questione proposta dal regista. É necessario rendersi conto di come la situazione afroamericana sia diventata un genere letterario e cinematografico che permette ai bianchi di provare un senso di colpa superficiale e banale ma espiante.

Il mercato dei bianchi (ma non solo) richiede opere black piene di clichè e banalità, la cui conseguenza è la continua relegazione dei neri alle situazioni di droga e rapine, ragazze madri e situazioni al limite. Il cortocircuito di pena, sensi di colpa e ammenda non permette di risolvere il problema della razza perchè non si raggiunge un’eguaglianza nemmeno nel riconoscimento artistico.

Paura di osare

Nonostante l’abile e pungente scrittura, la semplice ma solida regia e un tema centrale sempre al centro della narrativa, American Fiction non colpisce a fondo. Sembra che a Jefferson bastasse veicolare un messaggio, una domanda, circa appunto il cortocircuito logico di cercare l’uguaglianza insistendo sulle differenze fra bianchi e neri.

Il messaggio arriva e le questioni poste sono di interesse, ma è logico chiedersi anche se lo scrittore e regista potesse spingersi oltre, azzardando e realizzando un’opera più coraggiosa. Le conseguenze delle provocazioni del protagonista, lo squilibrio intellettuale fra qualità ed esigenze di mercato, le relazioni personali instabili. La regia e la scrittura dimostrano che le capacità per osare di più ci sarebbero state.

Voto: 6.8

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