Recensione – Nuovo lungometraggio per Cristian Mungiu a sei anni da “Un padre, una figlia”. Il film si immerge nella paura del cambiamento e come questo possa generare in modo negativo degli “animali selvatici” travestite da persone. In concorso al Festival di Cannes 2022 giunge finalmente nelle sale italiane il 6 luglio 2023.

La storia

Dopo aver avuto problemi sul posto di lavoro, in Germania, Matthias (Marin Grigore) torna nel suo paesino d’origine, in Transilvania, dove vive un rapporto difficile con sua moglie Ana (Macrina Bârlădeanu) e con il figlio piccolo Rudi (Mark Blenyesi). Quando alcuni lavoratori del sud-est asiatico vengono assunti nella fabbrica del paese, esplodono proteste, frustrazioni e conflitti tra gli abitanti.

L’ambientazione

“Animali selvatici” (titolo originale “R.M.N.”, ad indicare la risonanza magnetica nucleare) è ambientato in una profonda provincia della Romania, in un villaggio rurale che ha visto negli anni un continuo migrare di persone verso i grandi centri urbani. Questo luogo della Transilvania, quasi isolato dal mondo, è stato un territorio storicamente al centro di numerose contese, ed è attualmente abitato da immigrati ungheresi che compongono la maggioranza della comunità, insieme a rumeni, tedeschi e altre etnie.

Sono proprio questi nuovi abitanti a mancare di empatia nei confronti dei nuovi lavoratori arrivati dallo Sri Lanka, colpevoli di “rubare loro il lavoro”. Da questa premessa si sviluppa quello che è uno dei temi fondanti del film, ovvero l’estremo razzismo e la mancanza di solidarietà.

La globalizzazione e il populismo

La paura più grande è quella del cambiamento. Basta poco per far esplodere l’intolleranza, la ferocia e il linciaggio della folla. Il film di Mungiu è figlio del populismo che ha coinvolto recentemente gran parte dei paesi europei. Un problema globale che giunge in una piccola comunità locale, e innesca una spirale di violenza in grado di coinvolgere ogni singolo essere umano. Il modello positivo di globalizzazione proposto dall’Unione Europea non arriva ai piccoli villaggi, ma probabilmente fatica anche nelle grandi città.

Siamo tutti animali

In questo paesino apparentemente tranquillo, gli uomini convivono, nel bene e nel male, con gli animali. Allevano pecore, uccidono maiali per tradizione, sono abituati a fronteggiare tutto ciò che c’è di selvaggio nella foresta che li circonda. Nella giungla della vita, il protagonista insegna al figlio piccolo a combattere e a sopravvivere contro uomini e animali.

“Stai lontano dagli animali selvatici quando sei disarmato”

è l’insegnamento principale. Il significato di questo avvertimento si allarga agli esseri umani con cui si è costretti a convivere, perché, in un modo o nell’altro, Mungiu suggerisce che si è tutti animali nel senso più negativo del termine. 

Violenti istinti

Man mano che la storia avanza, l’ambiente si fa più violento, predomina l’istinto, sparisce il controllo. Apice di questo scontro, almeno verbale, è una riunione cittadina magistralmente ripresa in pianosequenza per 17 minuti, in cui le persone del posto vomitano tutta la loro rabbia senza pietà nei confronti dei lavoratori stranieri.

Il film trasmette un senso di angoscia e di pericolo imminente. La chiave per uscirne è rappresentata dalle due persone che vivono la comunità ai margini: il figlio del protagonista (che sembra essere l’unico bambino del villaggio) e l’anziano padre malato. Entrambi muti – per scelta o per difficoltà – uno ha vissuto una vita intera in quest’ambiente “malato”, l’altro ci sta crescendo e dovrà imparare a conviverci. A loro due, o meglio, al più piccolo dei due, Mungiu affida l’unica flebile speranza di cambiamento, di umanizzazione della società.

Voto: 7,5

Di Redazione Ck

Composta da studenti, lavoratori, mamme, semplici "mangiatori" di film, la redazione di Cinematik.it scrive per passione.... passione del cinema e di quanto ci sta attorno

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