Recensione – Film di Michael Mann del 2004, a quasi vent’anni dall’uscita, rappresenta ancora un classico del genere action, e uno dei più noti del regista. Protagonista è Tom Cruise. Ora che da poco ha vinto la Palma d’Oro onoraria a Cannes75, e che è tornato a scuotere l’opinione pubblica con “Top Gun: Maverick”, vale la pena di riscoprirlo in una delle rare volte in cui non veste i panni dell’eroe e del vincitore. Nell’attesa di vederlo nuovamente, in modo instancabile, presto protagonista di “Mission: Impossible – Dead Reckoning”.
Accenni di trama
Siamo a Los Angeles, un aereo atterra. Appare Tom Cruise, e già non è come ce lo aspetteremmo. Vincent, infatti, è un uomo probabilmente sulla sessantina, un po’ brizzolato, elegantemente vestito e dal portamento fiero. All’epoca, Tom aveva poco più di quarant’anni, e vederlo con barba e capelli tendenti al grigio, da icona di bellezza ed eterna giovinezza, non può che stupire.
Presto s’incontrerà con il tassista Max Durocher (Jamie Foxx), e quella che dovrebbe essere un’altra delle innumerevoli corse della routine lavorativa, si trasformerà in un’avventura che cambierà per sempre la vita di entrambi. Infatti, in apparenza uomo d’affari, alla ricerca di stipulare contratti immobiliari, Vincent è in realtà un sicario assoldato per eliminare informatori, voltafaccia della malavita, e traditori. I due, sempre più specchio l’uno dell’altro, inseguiti da polizia e federali, finiranno per discutere sul senso della vita, e sul reale significato dell’esistenza.
Scontri di valori
Per Vincent, Los Angeles è una città disconnessa, potenza economica mondiale, ma dove nessuno si conosce davvero. Ogni volta che atterra a Los Angeles, non vede l’ora di ripartire. Max, da sempre nato e vissuto in città, tassista da dodici anni e col sogno di aprirsi un’impresa di limousine, ha in apparenza il pieno controllo dell’ambiente, conosce ogni percorso e tragitto, tanto da giocare coi clienti che discutono sul percorso da prendere. Il suo è sempre e comunque il più veloce e privo di ostacoli.
Tutto per lui deve essere perfetto. In Vincent, presto si noterà un cinismo radicale sulla vita, secondo lui un eterno vagare, in cui vita e morte non hanno significato. Non c’è mai una buona o cattiva ragione per vivere o morire, e siamo solamente un puntino nello spazio, immerso in centinaia di milioni di stelle, parte di milioni di galassie.
Ribaltamento di prospettiva
Max, suo malgrado coinvolto negli omicidi, e costretto ad agire attivamente per sopravvivere, vedrà la propria visione della vita ribaltata, risvegliato dal torpore in cui da sempre, senza nemmeno saperlo, si è perso. La routine, da classica sinfonia monodica di ripetizioni e ritornelli, di un vagare sul taxi senza davvero conoscere nessuno, fatto di incontri momentanei e transitori, dovrà trovare una nuova melodia.
Come nel jazz, parte integrante della trama, con la presenza anche nella colonna sonora di Miles Davis, si deve andare al di là delle singole note ripetute, per vivere davvero. Occorre improvvisare, per non venire trascinati dal flusso. Seppur nel suo lavoro di sicario, Vincent ha probabilmente vissuto da sempre in modo più autentico, decidendo della sua vita in maggior autonomia. Il finale resta in gran parte volutamente aperto, e possiamo solo immaginare per Max un’esistenza più libera.
Riflessioni finali
Il film è impreziosito dalla presenza artistica di molte maestranze produttive.
Le musiche originali, fra cui come già notato parte integrante di rilievo è il jazz, con la presenza anche di Bach, di sonorità metal, house e hard rock, sono composte da James Newton Howard, più volte candidato agli Oscar e ai Golden Globe. Alcune musiche sono poi riprese da altri film del regista – “Exile” di Lisa Gerrard e Pieter Bourke da “The Insider” e “Steel Cello Lament” di Elliot Goldenthal da “Heat” -.
La fotografia, è invece curata da Paul Cameron e Dion Beebe (Oscar alla miglior fotografia nel 2006 per “Memorie di una geisha”). La scenografia è di David Wasco (vincitore dell’Oscar nel 2017 per “La La Land”). Il risultato è una pellicola che va oltre il suo genere di appartenenza. L’action diventa quasi discorso filosofico sull’esistenza, in cui tutto è una grande metafora della Vita.
Voto: 7.5