Recensione in anteprima – Morten Tyldum, dopo “The imitation game” si cimenta in un film di fantascienza con protagonisti due degli attori più celebri del momento. Il regista punta al film epico ma sceneggiatura e intreccio non sono all’altezza. In uscita in Italia il 30 dicembre.
Jennifer Lawrence (Aurora) e Chris Pratt (Jim) sono i protagonisti di un emozionante thriller d’azione, che narra la storia di due sconosciuti che durante un viaggio lungo 120 anni verso un altro pianeta, si svegliano 90 anni prima del previsto, a causa di un malfunzionamento al sistema delle loro capsule di ibernazione. Jim e Aurora sono costretti a ricercare il mistero del guasto, mentre la navicella è sull’orlo della distruzione, mettendo in pericolo la vita dei passeggeri nel corso della più grande migrazione di massa della storia umana.
Per parlare di questo film bisogna che io parta dalla fine. Non mi riferisco al finale del film ma alla rabbia che questo film mi ha lasciato una volta ultimata la proiezione e a distanza anche di giorni. Una rabbia per l’occasione sprecata sia dal regista, sia da tutto il cast tecnico e artistico.
La storia, il soggetto, l’inizio di questo film è ad altissimo potenziale e Morten Tyldum, per una buona mezzora ci illude di aver intrapreso la strada giusta nell’ambientare nello spazio e attraverso la fantascienza, una storia d’amore che sfrutti il potenziale racchiuso nella solitudine, nell’impossibilità di uscire dalla rotta e dalla destinazione finale.
Purtroppo ciò che di buono appare nella prima parte dove Chris Pratt è pervaso dalla solitudine dell’inaspettato risveglio viene vanificato in modo abbastanza banale, ritornando in una narrazione molto più telefonata, prevedibile e che cambia di registro così repentinamente che ci si dimentica, per parecchi minuti, di essere a bordo di un’astronave.
“Ti fidi di me?”
Questo dice Jim ad Aurora. Vi ricorda qualcosa? Esatto! Quella che è una citazione usata anche in altri film diventa il “jump the shark”, il salto dello squalo di Fonzarelliana memoria, dell’intero film. Da lì in poi, da quella scena, è un susseguirsi di situazioni che ammiccano a tutto ciò che lo spettatore vuole vedere ma che non hanno ragione logica o verosimile di essere intessute in una situazione fantascientifica. Si rasenta più volte il ridicolo fregandosene altamente delle elementari nozioni scientifiche di base e si crea un non-sense che, in alcune situazioni, diventa estremamente controproducente.
Mentre la prima parte ingolosisce lo spettatore nella speranza di scavare nell’animo del protagonista che si ritrova solo per 90 anni su una nave spaziale, la seconda brucia tutto e si identifica in una sorta di “Titanic” dello spazio: storia d’amore in apparenza impossibile anche per le diverse estrazioni sociali dei due, e una nave, quella che dovrebbe essere perfetta, che fa le bizze e dimostra tutta la spocchia e l’arroganza umana. Tale e tanta arroganza da non prevedere nemmeno un sistema di diagnostica efficiente quando tutta la fantascienza, da Star Trek a Star Wars, da Ufo a Interstellar prevede un doppio, se non triplo, sistema di controllo e monitoraggio.
Personalmente avrei preferito alla regia un certo Darren Aronofsky per esempio, capace forse di sfruttare la situazione fantascientifica per ricorrere a paure, sogni, insicurezze umane. Morten Tyldum manifesta la sua poca dimestichezza col genere sia fantascientifico che, in questo caso, introspettivo e riflessivo. Si adagia ad assolvere al “compitino” assegnato riportando, grazie agli effetti speciali, molta fantascienza alla “Gravity” senza mai toccarne le corde emotive giuste benchè le scene siano stilisticamente ben create e visivamente ineccepibili.
E’ in viaggio da anni la sceneggiatura di “Passengers”. Jon Spaihts, infatti, ha scritto più o meno quanto vediamo riprodotto sul grande schermo già nel 2007 suscitando grande interesse tra le case di produzione. Le vicende travagliate della creazione di questo film han visto avvicendarsi diversi registi e interpreti, basti pensare che fu accostato alla regia anche il nostro Muccino intorno al 2010. Nel frattempo Spaihts ha firmato la non felice sceneggiatura di “Prometheus”, rivista in parte da Lindelof e la sceneggiatura invece più fortunata di “Doctor Strange”. Lui è lo sceneggiatore anche del nuovo capitolo del franchise de “La mummia”. Un curriculum di tutto rispetto tra passaggi a vuoto e successi.
Un capitolo a parte riguarda l’interpretazione del cast. Esistono solo Jennifer Lawrence e Chris Pratt con l’amichevole partecipazione al film di Michael Sheen (l’ex storico marito di Kate Backinsale) nella parte di un robot. Tutto il resto dei credits son lì per caso, come per caso, e francamente in modo inutile, appare il personaggio di uno sprecato Lawrence Fishburne, realmente un pesce fuor d’acqua nel film. I due attori di grido invece funzionano da soli, quando sono da soli danno il meglio di sè, cosa che risulta una nota stonata in questo film dove, in realtà, si puntava tutto sulla loro alchimia e bravura nel fare coppia. Purtroppo la sceneggiatura è scarna di pathos e di situazioni “pozzo” che dovrebbero veicolare l’eventuale innamoramento. Quando poi la vicenda si fa conflittuale allora riappare la Lawrence delle “corse” (temiamo sia da contratto che debba correre nei suoi film) alla “Il lato positivo” con smorfie da Katniss, un po’ pochino anche se sulla bellezza e sul fascino non si discute. Pratt invece offre una buona mezzora di film e poi giggioneggia se stesso succube in modo forzato e non credibile della situazione che si viene a creare.
Il film piacerà, forse, ai sentimentali, a tutti coloro che chiuderanno un occhio e anche due a evidenti errori di sceneggiatura, di logica, di fisica, di astronomia di base. Non può essere considerato un film di fantascienza solo perché narra di una nave nello spazio, a questo punto malgrado la scenografia da urlo e futurista, prendere spunto per qualcosa di riflessivo ed intimo, cogliendo gli spunti che la sceneggiatura qua e là da, sarebbe stato molto più interessante.
Voto: 5,2