Mercoledì 8 aprile, Iris, ore 21.00. 

Per chi non guarderà il calcio sulla Rai, e per chi non rivedrà il sempre piacevole Prova a prendermi su Rete 4, la scelta cinefila del giorno è (ri?)-vedere il penultimo capolavoro di Michael Mann, dato che solo i più fortunati e solerti sono riusciti a vedere in sala il recente Blackhat.

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NEMICO PUBBLICO

(Public Enemies, 2009, USA)

Gangster Movie

Regia di Michael Mann

Con:

Johnny Depp

Christian Bale

Channing Tatum

Marion Cotillard

David Wenham

Giovanni Ribisi

Stephen Dorff

Billy Crudup

Durata: 143 minuti

Trama

La storia di una caccia all’uomo tra le più famose della storia americana: quella portata avanti da Melvin Purvis, leggendario agente del Federal Bureau of Investigation, che, dopo anni di indagini, riuscì a fermare la carriera criminale di John Dillinger e dei suoi compagni.

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RECENSIONE

Se ce la spassiamo così tanto oggi perché pensare al domani?

Nel cinema di Michael Mann ciascuno prima sceglie la propria via e poi ne deve pagare le conseguenze. È fatale.
Affrontando il personaggio di John Dillinger (interpretato da un ottimo Johnny Depp, maturo, e ripulito dai tic della sua mimica), nemico pubblico numero uno secondo J. Edgar Hoover, direttore del Bureau of Investigation, il regista di Chicago ricostruisce perfettamente l’atmosfera dell’America anni 30, non perdendo un grammo della propria poetica, ma anzi investendola pienamente nei lati della storia più vicini al suo modo di fare cinema. In un’operazione che si pone in maniera speculare a quella di Andrew Dominik e del suo recupero malickiano dell’altrettanto mitica figura di Jesse James (entrambi antieroi di due momenti di passaggio, di frontiera), Mann tratta l’epoca d’oro dei fuorilegge e del gangster movie con l’algida immediatezza del digitale, provocando una violenta vertigine mortifera che si contrappone al vitalismo a perdere delle vicende di Dillinger e soci.
“Nemico pubblico” è ovviamente segnato dalla figura del proprio protagonista: astuto rapinatore di banche, ma soprattutto leggenda “bigger than life“, tanto che negli anni della Grande Depressione sembrava quasi un Robin Hood moderno. Mann non vuole cantarne il mito, sarebbe anche troppo facile; Dillinger, per quanto possa apparire affascinante e per quanto il suo comportamento sembri seguire un codice, è un gangster, e i buoni stanno da un’altra parte. Forse.
L'(anti)eroe e la sua nemesi (il segugio Melvin Purvis, presentatoci alla grande, quando ammazza in un frutteto Pretty Boy Floyd) corrono su binari paralleli, sono persone che rimangono sole coi propri dubbi, fermate a un passo dal raggiungimento dei propri obiettivi (il classico “ultimo colpo” per Dillinger, essere il primo a beccare il nemico pubblico n.1 per Purvis). Stavolta il cortocircuito manniano propende dalla parte di Dillinger, poiché Purvis (un Bale perfettamente ingessato), di certo non malefico, è troppo pulito e imbalsamato per poter competere col carisma da ribelle senza causa di John. Lo scarto è prodotto poi dall’aura romantica del primo e dal freddo controllo del secondo: il loro duello a distanza (al contrario di quanto succede in “Heat – La sfida” non vi sarà mai un reale “faccia a faccia”) è quello del Sistema che tenta di eliminare con ogni mezzo a sua disposizione un’anomalia, una scoria impazzita di un mondo che si vuole lasciare alle spalle. La fine è nota.

Oltre alla padronanza della macchina da presa che riconferma Mann uno dei migliori registi in circolazione, con “Nemico Pubblico” si toccano picchi tecnicamente esaltanti: ricostruzione scenografica dettagliatissima, fotografia di Dante Spinotti che vola altissima, montaggio e sonoro che nelle scene d’azione si imprimono con potenza sulla retina e bucano i timpani.
La cornice del gangster movie, la sua grammatica non è usata per fare del vintage ma per essere superata: l’uso prepotente della camera a mano dà, insieme al digitale, la giusta dose di frenesia e immediatezza, che non ha tempo per la pulizia (scavalcamenti di campo, errori nei raccordi) ma si dedica piuttosto a granitici primi piani e alla composizione di profondità di campo stordenti.
Mann, con modalità assimilabili a quanto aveva fatto negli anni 80 con “Strade violente” e “Manhunter” che, insieme a “Vivere e morire a Los Angeles” di Friedkin, lanciavano le nuove coordinate per il poliziesco più nero degli anni a venire, sta nuovamente passando sotto il suo setaccio il cinema americano: in principio fu la notte losangelina di “Collateral” e, dopo il cielo tempestoso di “Miami Vice”, è arrivata la Chicago d’acciaio di “Nemico pubblico”. Noir, poliziesco, film gangster: i generi ritrovano nuova forma, una nuova estetica e una modernità impensabile per una storia – se si pensa a quella di Dillinger – che era già stata raccontata diciassette volte tra cinema e tv. Tutto ciò proseguendo un percorso autoriale ben definito, che trova nei personaggi e nello studio antropologico il proprio baricentro. Lontano dai dilemmi morali dell’ormai leggendario Eastwood, l’umanità di Mann si muove lungo tappe obbligate, lungo strade destinate a incrociarsi.
E ci sarebbero parole da spendere anche per l’ennesima storia d’amore impossibile della carriera del regista: a Billie Frechette (una Marion Cotillard, che si vede poco ma convince abbastanza), donna di Dillinger rimasta sola, non resta che piangere in carcere, mentre l’agente che ha sparato a John dice (inventando?) che le ultime parole del suo uomo erano state per lei: « Dì a Billie “Bye Bye, Blackbird” ». Con una porta che si chiude si descrive tutta la solitudine provocata dalla perdita.

Nei film di Micheal Mann capita spesso una sequenza che sembra quasi una pausa nella narrazione, con connotazioni metafisiche; l’esempio perfetto è in “Collateral”: il taxi di Max si arresta all’improvviso e Vincent guarda rapito un coyote che attraversa la strada a L.A., di notte. Prima della catarsi.
In “Nemico Pubblico” avviene in maniera incredibilmente straniante: Dillinger/Depp, ormai solo e braccato, entra nella stazione di polizia e arriva pure nelle stanze della squadra che gli dà la caccia, guarda le foto segnaletiche, le foto dei suoi amici deceduti, chiede informazioni su una partita, dopodiché se ne va. Il Bureau aveva già avuto la soffiata che gli sarebbe costata la vita: Dillinger quella sera sarebbe andato al cinema. Un agente reclutato da Purvis, più simile a uno sceriffo del vecchio West, intuisce anche il film che va a vedere: tra Shirley Temple e un film di gangster come “Manhattan Melodrama”, avrebbe sicuramente scelto il secondo. Così è: lo ritroviamo in sala, rapito da Clark Gable nella parte di un uomo che aveva scelto la strada sbagliata, ma che decide di pagare per le sue azioni: “Muori come hai sempre vissuto”.
Il Dillinger di Mann è pronto, il suo sguardo è già dentro lo schermo, è (di) nuovo cinema. (Giuseppe Gangi alias Noodles)

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