Recensione in anteprima – Venezia 78 – In concorso – Terzo lungometraggio per Michelangelo Frammartino dopo 11 anni dal suo precedente “Le quattro volte”. Un film con pochi dialoghi, molti silenzi che lasciano spazio alle immagini ricostruite dell’impresa. “Il buco” è stato accolto molto bene dalla maggior parte della critica e ha diviso i giudizi tra il pubblico. Per noi rimangono le belle immagini naturali e la volontà di descrivere l’impresa lasciando spazio a rumori e silenzi.

La storia dimenticata

Nel 1961 un gruppo di speleologi si è addentrato all’interno dell’Abisso di Bifurto, un buco lungo 683 metri nel Parco del Pollino. L’anno prima, al Nord, si completava la costruzione avveniristica del grattacielo Pirelli di Milano, vista dagli abitanti del sud raggruppati davanti allo schermo dell’unico televisore del paese. A quel movimento verticale e ambizioso verso l’alto, poi simbolo del boom economico anni Sessanta, è corrisposto il movimento speculare e contrario verso le viscere della terra compiuto dal gruppo degli speleologi, la cui impresa ha avuto un’eco anch’essa speculare e contraria a quella dei costruttori milanesi: ovvero quasi nulla.

E’ proprio da questa contrapposizione che il regista Michelangelo Frammartino parte per introdurci il suo film. Si tratta di una prima scena dove l’immagine fissa del buco con videocamera interna fa intravedere il cielo all’esterno, la poca vegetazione e l’intervento di qualche mucca. La seconda, subito dopo, riguarda il servizio in tv di un giornalista che mostra ai telespettatori affascinati il grattacielo Pirelli a bordo di una gru esterna adibita al lavaggio vetri.

Si tratta di una contrapposizione netta tra il clamore della tv e il silenzio di “vita” del buco, lì da millenni e opera della natura. L’opera della natura si contrappone all’opera umana. Il basso con le viscere della terra si contrappone all’altezza mai raggiunta prima in Italia.

Il contesto naturale

Il film dura 93 minuti e presenta pochissimi dialoghi. Per più del 90% regnano il silenzio e i rumori della natura spezzati solo dalle voci fuori campo della vita di un piccolo borgo. Vengono quindi presentate anche scene di vita quotidiana come il lavoro nei campi, il controllo medico di alcuni bambini.

In questo contesto naturale che vede protagonista la natura e il vivere della popolazione si innesta arrivando con furgoni militari la vicenda degli speleologi che devono perlustrare il famoso buco fin nella profondità.

“Il buco” si esprime per immagini e non presenta nessuna spiegazione da parte degli attori che vediamo in scena. Quasi nessuno parla e si ha sempre l’impressione di essere spettatori che non vengono calcolati nella scena. Lo spettatore non ha nessuna informazione scritta o parlata di quanto sta accadendo. Il tutto viene ricostruito dall’azione sullo schermo.

I silenzi che parlano

Il film è quindi, giocoforza, pieno di silenzi. La prospettiva interna del buco dal quale guardare il mondo esterno viene spesso utilizzata così come anche le inquadrature ravvicinate e spesso buie dell’ispezione di quella profondità ancora sconosciuta.

Nel complesso il nuovo film di Michelangelo Sammartino è uno spettacolo visivo grazie alle belle inquadrature del paesaggio calabrese. Ha ritmi lenti che ne rendono un po’ pregiudizievole la visione anche a causa di una sceneggiatura che non presenta dialoghi. La contrapposizione tra il verticale rivolto verso l’alto del nord e il verticale rivolto verso il basso del sud è forse l’elemento migliore del film oltre alla prospettiva dall’interno del buco che, con la luce che passa da risalto all’azione degli uomini.

 Voto: 6,3

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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