Rai movie, 21.15, giovedì 27 agosto 2015.
L’ultimo film dello scorso millennio firmato da Martin Scorsese, un ideale sequel/remake di Taxi Driver e Fuori orario, con un allucinatissimo Nicolas Cage, forse mai così al servizio – con le sue sempre criticatissime “non” espressioni – di un personaggio memorabile e un po’ dimenticato.
AL DI LA’ DELLA VITA
(Bringing Out the Dead, 1999, USA)
Drammatico
Regia di Martin Scorsese
Con: Nicolas Cage, Patricia Arquette, John Goodman, Ving Rhames, Tom Sizemore, Marc Anthony, Cliff Curtis
Durata: 120 minuti
Trama:
Frank Pierce (Nicolas Cage) è un paramedico che adora salvare la vita agli altri perché così si sente a posto con se stesso e la sua coscienza, quasi Dio. Da sei mesi, però, non salva più nessuno, e soffre tremendamente per questo. Il film segue tre giorni e tre notti della sua vita (un giovedì, un venerdì e un sabato), nei quali Frank si ritrova ad avere a che fare non solo con tre colleghi diversi – l’affamato e cinico Larry (John Goodman), il credente e allegro Marcus (Ving Rhames) e lo schizzato e violento Tom Wells (Tom Sizemore) -, ma anche e soprattutto con la bella Mary Burke (Patricia Arquette), figlia di un malato di cuore che Frank ha portato in ospedale contro la sua volontà e che preferisce essere lasciato morire piuttosto che essere legato a un letto d’ospedale.
RECENSIONE
Era impossibile superare un palazzo che non contenesse lo spirito di qualche cosa, gli occhi di un cadavere, le grida di un parente caro; tutti i corpi lasciano un segno, non puoi stare vicino a uno appena morto senza sentirlo. Questo lo potevo sopportare, quello che mi perseguitava ora era più selvaggio, spiriti nati non completi, omicidi, suicidi, overdose, che mi accusavano di essere stato presente, testimone di un’umiliazione che non avrebbero mai potuto perdonarmi
(Frank Pierce in “Bringing Out The Dead”)
Frank Pierce è paramedico dell’EMS, il suo lavoro sarebbe quello di salvare vite. Invece da qualche tempo a questa parte può solo portare fuori i morti (il titolo originale del film è infatti “Bringing Out The Dead”), perché non riesce ad aiutare nessuno; la gente gli muore tra le mani e lui sta lentamente perdendo il contatto con la realtà. Il fatto di non esser riuscito a salvare Rose, una giovane tossica deceduta per overdose, lo sta logorando dentro. Non mangia e beve soltanto, nemmeno tanto velatamente vorrebbe farsi licenziare, ma il suo capo non ha mai licenziato nessuno e ha sempre bisogno di personale. Non ci sono scuse, Frank deve affrontare la strada e quei maledetti turni di notte. Lo straparlare coi colleghi (solide spalle come John Goodman prima, Tom Sizemore e Ving Rhames dopo), l’eccesso di alcool o forse un vero e proprio avvicinamento all’aldilà comincia a procurargli continue allucinazioni: vede il volto di Rose in ogni ragazza, in ogni persona sofferente, in ogni battona o tossica. E poi i fantasmi che ciascuno si porta dietro sembra che Frank li proietti sulle strade di New York, li vede muoversi lì dove sono morti: una grande città è un grande cimitero a cielo aperto. Ogni notte è un estenuante calvario al quale si sottopone, perché in fondo crede ancora di poter fare bene il suo lavoro, di poter aiutare qualcuno.
Martin Scorsese accetta la sfida di riunirsi con Paul Schrader per la quarta e finora ultima volta, traendo un film da “Pronto Soccorso”, un romanzo scritto da Joe Connelly che aveva lavorato per dieci anni come autista di autoambulanze. Realizza alle soglie del XXI secolo un ritratto allucinato e grottesco della metropoli che ama e odia, da cui trae ispirazione per poi mostrarne i lati oscuri: grottesco come “Fuori orario” anche se l’umorismo macabro di quel gorgo kafkiano qui è volto intorno a uno dei temi portanti della filmografia del regista quello del rapporto colpa-redenzione, e degli effetti di entrambi. Il racconto vede il Frank di un eccellente Nicolas Cage (probabilmente al suo miglior ruolo) che si disfa procedendo nella sua via crucis di tre giorni; come dice lui, salvare le vite è come una droga, è come sentirsi Dio, è come essere Dio. Se non ti senti investito da una missione finisci per soccombere: ne basta salvare uno per tornare in armonia con l’universo.
Da notare il tono sarcastico che l’autore usa col personaggio invasato di Ving Rhames, che si sente strumento divino e che imbastisce tutto il suo turno come una lunga performance, così come il personaggio di Sizemore che, per converso, è un feticista del sangue e un violento egli stesso. Frank è invece un irriducibile, strappa un uomo alla morte e trova nella figlia di questi la sua Maria Maddalena (che non a caso si chiama Mary), un’ex tossica con un burrascoso passato. Anche se l’ambientazione newyorkese non può che riportarci alle atmosfere di “Taxi Driver”, Frank è una moderna figura cristologica, che ha deciso, dopo un periodo di crisi, di continuare a portare la propria croce. Pessimisti fino in fondo, Scorsese e Schrader abbracciano l’idea di una ricomposizione dell’equilibrio mentale di Frank attraverso la negazione del suo lavoro (liberare un paziente strappato alla morte dal peso di essere un vegetale) e condannandosi a vivere.
Lo sguardo di un Nicolas Cage sempre più sfatto e livido prova compassione per la sua città, per quel bestiario che Travis Bickle malediceva, e lui cerca di salvare. Puttane e pazzi che vanno in giro tentando di ammazzarsi, spacciatori raffinati che costruiscono un’oasi lisergica alla quale abbeverarsi, la vita è un purgatorio e Frank sembra conoscere quella disperazione esistenziale come le sue tasche. Scorsese dirige con gli stessi funambolismi acceleratori di “Fuori orario”, con potenti movimenti di una macchina da presa che arriva a ruotare anche di 360°, come se fosse spostata dalla furia dell’autoambulanza che sfreccia per le strade della metropoli americana, con le luci della sirena che macchiano di colori forti il buio della notte. La narrazione può sembrare forse squilibrata, ma i rimandi interni e il sottotesto allegorico fungono perfettamente da collante; e se ce ne fosse bisogno arriva anche una fantasmagorica sequenza-trip nella quale l’allucinato paramedico si aggira tra i fantasmi che fuoriescono dall’asfalto della città morente.
Chissà che sarebbe successo in un ipotetico confronto fra il Martin Scorsese della metà degli anni 70 e quello della fine dei 90, e lo stesso dicasi per lo sceneggiatore, l’amico-nemico Paul Schrader. La rabbia, la cattiveria quasi nichilista e autodistruttiva che non permetteva loro di scendere a compromessi, sentendo di avere tutto da dimostrare, contro dei signori che erano sopravvissuti a un’epoca, diventando delle autorità (Scorsese) o eminenze grigie al quale il cinema neo-hollywoodiano doveva (e dovrebbe tutt’oggi) tributare il giusto onore (Schrader). Anche la città di Scorsese era cambiata, la sua New York maledetta aveva voltato pagina e stava spostando la spazzatura e il marcio delle strade un po’ più in là, nelle periferie. Era giunto il momento del sindaco Giuliani e della sua politica di “tolleranza zero”. “Al di là della vita” assume quindi i connotati di un commiato epocale, e difatti porta indietro di qualche anno le lancette dell’orologio, avvertendoci con una didascalia che la storia si svolge a New York, agli inizi degli anni 90. Dopo, Scorsese sarebbe solo potuto saltare in un altro tempo, alle radici mitografiche degli Stati Uniti, con “Gangs of New York”. A noi ha voluto lasciare un’immagine di umana spiritualità, la laica Pietà composta da Frank e Mary che chiudono malinconicamente il film.
C’è un po’ di quiete anche per chi, condannato a vivere, percepisce la vastità della nostra valle di lacrime. (di Giuseppe Gangi alias “Noodles”; Pubblicato in precedenza su OndaCinema.it)