Questa sera (o meglio stanotte) su La7D, 00.25 (lunedì 23 febbraio). Per soli nottambuli e veri cinefili.

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NIENTE DA NASCONDERE

(Cachè, Francia – Austria – Germania – Italia, 2005)

Regia di Michael Haneke

Con:

Daniel Auteuil

Juliette Binoche

Maurice Benichou

Annie Girardot

Durata: 117 minuti

Trama:

Georges, giornalista, riceve una serie di videocassette che riprendono la vita della sua famiglia. Qualcuno li sta spiando.

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RECENSIONE

“Niente da nascondere” è l’ennesima e finale dimostrazione che Michael Haneke è un sadico.
In “Funny games” si denotava l’inclinazione del regista austriaco a prendere in giro lo spettatore, ma con questa sua opera, raggiunge davvero l’apice. Egli non mette in scena un film, bensì un teorema, che decide di dimostrare ad ogni costo, spinto dal suo insopprimibile odio per l’alta borghesia.
Cachè, è un titolo ambiguo e contraddittorio, visto che tutto nel film è mostrato, anzi è mostrato due volte: non solo nel film, ma anche nelle videocassette recapitate ai protagonisti. Al contempo, però, nulla è realmente chiaro e si ha la sensazione che vi sia ancora qualcosa di nascosto (sensazione che si protrae fino alla non-fine del film).

Caché inizia come cominciava Lost Highways di Lynch, ma prende presto tutt’altra direzione.
Quello che interessa a Haneke è: si può attraverso l’occhio cinematografico fornire la Verità?
Ma non una verità qualsiasi, bensì una verità che è memoria, che è ri-conoscer(si), che comporta lo smascheramento delle menzogne sopite nel tempo. Verità che, infine, sgretola i castelli di carta coi quali si è costruita la propria vita.
La lucidità con la quale Haneke porta avanti la sua tesi è impressionante, e questo è indiscutibile.
Il problema non sono tanto le idee ma la narrazione che viene totalmente sottomessa e sacrificata.
Difatti, i risvolti della storia, soprattutto nella seconda parte, si fanno via via più ridicoli: Georges nasconde a sua moglie che da piccolo era un bambino egoista e viziato (lo è ancora?) e che ha fatto cacciare quello che sarebbe stato suo fratello adottivo; per questo motivo, comincia a crollargli il mondo addosso e i rapporti in famiglia si deteriorano. Molto, troppo poco: nella vita accadono cose decisamente più gravi. La narrazione persiste in un’infinita sequela di enigmi che non trovano risposta, inabissandosi in gesti sempre più simbolici e criptici, mozzando il fiato a un film che perdeva colpi già dopo i primi venti minuti. Aggiungiamoci anche la morale di fondo che serpeggia per l’intero film – “tutti abbiamo qualcosa da nascondere” (ma và?) – e si comincia a capire che il castello di carte di cui sopra l’ha costruito proprio l’autore austriaco.

La famiglia protagonista è tra le più odiose che ricordi. Il figlio Pierrot l’avrei preso a sberle dalla prima all’ultima scena (menomale che non è sempre inquadrato). Georges rimane un personaggio irrisolto (se vediamo questo film in ottica hanekeniana potrebbe essere lui stesso a recapitarsi le cassette) e la moglie è ancor più piatta.
Girato alla maniera di Haneke, con delle inquadrature “di posizione”, il film non ha alcuna carica emotiva né vero afflato cinematografico. Le ambizioni di Haneke si accartocciano su stesse e soffocano l’opera in elucubrazione troppo cerebrali e teoriche.
Si salva giusto il finale che non finisce e che riapre il film: le colpe dei padri si trasmettono sui figli e l’odio si rigenera di generazione in generazione. Tutto il resto è noia. (Noodles alias Giuseppe Gangi)

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Curiosità:

Vincitore del premio per la miglior regia al 58° Festival di Cannes.

Il film non ha sottofondo musicale, l’unico brano che ascoltiamo è la sigla del programma tv di Georges.

Votato dalla rivista inglese Sight & Sound tra i trenta film “chiave” del primo decennio degli anni 2000. Il Times di Londra lo inserisce al primo posto nella medesima classifica degli anni ’00.

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