Recensione – Suburra di Sollima è il nuovo film del regista ambientato nella Roma di “Mafia Capitale”. Nel cast Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola.

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Annata d’oro per il cinema italiano, per quanto controversa: come accade da sempre, i film di Moretti, Sorrentino e Garrone a Cannes hanno diviso critica e pubblico tra estimatori a prescindere e stroncatori professionisti; a Venezia film interessanti, come Per amor vostro, L’attesa, e il sorprendente Non essere cattivo del fu Caligari, ora in corsa per gli Oscar: i film che nessuno è riuscito a vedere, almeno non il classico pubblico da botteghino.

E adesso Sollima rimescola e sparpaglia le carte, con l’uscita in grande stile di Suburra (dopo il recente accordo con Netflix, che produrrà nel 2016 la prima serie tv italiana del colosso americano dello streaming, il film è già disponibile agli abbonati USA). Stefano Sollima, figlio d’arte, gode di un credito aperto col pubblico più giovane, che ha conquistato con le serie tv prodotte da Sky di Romanzo Criminale e Gomorra (anche questo ricomincerà in primavera), e ha alle spalle un solo lungometraggio, ACAB, passato in sordina dato l’argomento scomodo e più che altro perchè con i film “di genere” nel Belpaese difficilmente si riesce a far parlare di sè. Obiettivo raggiunto in ogni caso dato che il film sui poliziotti violenti gode di un diffuso status di “cult”.

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Partendo dal romanzo di Bonini e De Cataldo (autore a sua volte dell’originale Romanzo criminale) e co-sceneggiato tra gli altri da due esperti professionisti come Rulli e Petraglia, Suburra, che evoca i quartieri della Roma imperiale in cui vivevano gli scarti della città eterna, si avvale di un cast all-star: Pierfrancesco Favino è l’onorevole Malgradi, il politico un po’ sfigato col vizio della droga e delle prostitute, che finisce per essere ricattato da chi sa troppo sul suo conto; Elio Germano è un PR che organizza feste vip e cerca disperatamente di non farle “fallire”, risucchiato anche lui da un vortice malavitoso che coinvolgeva il padre, sfortunato imprenditore edile; Claudio Amendola, misuratissimo in parole e azioni, “il samurai” reduce della Banda della Magliana che tiene in vita gli affari tra le famiglie del sud, la politica romana, i soldi di dubbi imprenditori e i vari clan romani; e infine i due volti nuovi e sorprendenti del film, Alessandro Borghi (lanciatissimo dato che è anche il co-protagonista di Non essere cattivo), il bandito romantico, innamorato della “tossica” Viola (Greta Scarano), l’uomo senza il quale a “Ostia nun se move na foglia”, figura centrale nel progetto di un litorale trasformato in una Las Vegas laziale; e su tutti Adami Dionisi, ex capo ultrà, pregiudicato, romano doc, è Manfredi Anacleti, il personaggio che ha anticipato la cronaca, dopo i recenti episodi del funerale Casamonica e l’ospitata da Vespa di due suoi familiari; il leader patriarcale di una famiglia rom, che tutti temono per la loro violenza e per i loro capitali acquisiti illegalmente, ma che vengono tenuti fuori dagli affati seri, quelli che una volta “ripuliti” fanno acquisire rispettabilità anche agli occhi della società borghese.

In due ore e dieci vediamo quindi dipanarsi le vicende di questi personaggi, inizialmente presentati con una macrosequenza ai limiti del televisivo, narrativamente, per l’esigenza di spiegare e definire bene i personaggi, i loro caratteri, il fatto che non ci siano veri buoni e veri cattivi; ma dal punto di vista registico qualcosa che in Italia è raro vedere, tranne forse appunto nella maestria dei colleghi e contemporanei Garrone e Sorrentino (che descrivendo una Roma molto più poetica e meno popolare è arrivato fino all’Oscar). Sollima si rifà ai film di genere di suo padre, degli anni ’70 del poliziottesco, del grande e dimenticato Ferdinando Di Leo (sebbene quest’ultimo avesse uno stile molto più asciutto e rigoroso, dettato dalla fretta imposta dai piccoli budget). Realizzato però con l’estetica odierna, che mescola grandi effetti (la pioggia incessante su Roma), le musiche elettroniche, il cinema americano e appunto la serialità televisiva, che impone un ritmo forsennato, che non annoia mai. Il film non a caso è scandito da una sequenza temporale, una settimana che porta dagli eventi iniziali a un’ipotetica Apocalisse (richiamata di continuo da brevi sequenze ambientate in Vaticano, che evocano le dimissioni di Ratzinger).

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Fine del mondo che in realtà avviene con le dimissioni del capo del governo (all’epoca dei fatti “romanzati”, il 2011, Berlusconi), che muterà in una serata i destini dei personaggi.

Il film è inoltre coraggiosissimo nel suo essere gratuitamente violento ed esplicito, sia nelle scene degli agguati, degli omicidi, delle vendette, sia nelle scene di nudo: colpisce in tal senso la totale assenza di divieti, laddove un film innocuo e persino divertente come The Green Inferno ha ottenuto un VM18. Nella “grande bruttezza” di Roma spiccano due scene, che hanno fatto già parlare di Sollima come del Refn o addirittura del De Palma italiano: per chi scrive uno dei riferimenti principali è invece William Friedkin, citato in un’adrenalinica scena di fuga automobilistica, e un riferimento obbligatrio ma forse involontario è Quentin Tarantino, per la totale assenza di figure legate alla legge nel film, evocate solo in qualche scena come “guardie”, e per la soluzione con cui una figura chiave del film scampa a un agguato nel finale (si riveda l’inizio di Bastardi senza Gloria).

L’altra scena chiave a cui ci riferivamo è invece quella nel centro commerciale, dove gli zingari provano a far fuori Numero 8, il Re di Ostia, sparando tra scale mobili, parcheggi, negozi di profumeria e abbigliamento e carrelli pieni di frutta e beni di prima necessità: set che in passato è stato sfondo di horror e metafora del consumismo moderno, in Suburra sembra quasi volerci ricordare che questi luoghi di ritrovo, simbolo di benessere economico, apparentemente così sicuri e democratici, sono un’espressione di quell’imprenditoria border-line che il film appunto denuncia.

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Si potrebbe discutere delle varie conclusioni del film, solo apparentemente catartiche per i vari personaggi in cerca di giustizia o di vendetta, in realtà ancora più amare perchè sottolineano come nelle dinamiche criminali la morte di un piccolo o di un grande boss apre semplicemente lo spazio per figure emergenti, magari più sanguinarie, o peggio, “invisibili”; dinamiche che sempre più spesso corrispondono a quelle politiche. Ma questo, magari, sarà lo spunto per un’altra storia.

Un pensiero su “Suburra”
  1. In questo momento se dovessi andare al cinema (ma ahimè, non credo di farlo), sicuramente andrei a vedere questo film. Perchè a me i poliziotteschi piacciono e poi una bella storia noir, malavitosa americana è una manna dal cielo. Proprio a noi che abbiamo prodotto con pochi mezzi negli anni 70 un cinema di genere che tutti ci invidiavano.

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