Recensione – Ennesimo film di Woody Allen che ormai procede, nonostante l’età a sfornare un film all’anno. Ritmi da commedia, verbosa, con richiami non troppo riusciti al thriller. Sono lontani i fasti dei suoi film migliori nonostante la pellicola goda di un Joaquin Phoenix che si lascia imbolsire e di una Emma Stone a dir poco solare.
Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell’Università di una cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un matrimonio fallito. C’è però anche la migliore studentessa del corso, Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria vita.
Quarantacinquesimo film in 50 anni di carriera cinematografica per l’eterno Woody Allen, ottuagenario regista da pochi giorni, praticamente un film all’anno per colui che è anche autore delle sue pellicole e sovente è stato anche splendido protagonista. Questa volta, come accade sempre più spesso negli ultimi film, Allen si concentra solo su regia e sceneggiatura e ritorna ai nostri giorni raccontando i temi ai quali è più legato.
La vita che scorre, la morte inevitabile, il male e il bene delle azioni, l’amore, la filosofia, il rincorrere discussioni lunghe e articolate. C’è un Woody Allen che si ripete e purtroppo si rinnova solo in parte. Il film in realtà non dispiace, ha un buon ritmo ed è sostenuto da una sceneggiatura verbosa e ricca di battute e dialoghi che, molte volte non sono nè banali nè comunque estremamente illuminanti.
Lo scopo di Allen non è tanto far ridere o sorridere in una commedia fortemente noir nelle intenzioni pur avendo un’ambientazione e una protagonista fortemente solare e rivolta alle cose belle della vita. Jill, infatti, una Emma Stone affascinante e sempre più brava, è carica, piena di vita, affascinata dal bello e dall’avventura. Abe è stanco della vita e il suo corpo imbolsito ne è la testimonianza concreta. Il suo essere perennemente attaccato alla bottiglia può creare anche imbarazzo e di questo non se ne cura proprio perché troppo ripiegato su sè stesso.
Questa caratterizzazione dei due personaggi principali è ben eseguita, solo a tratti parte per la tangente verso discorsi che, alla lunga possono diventare noiosi e ripetitivi. Però il resto manca di quella tipica ironia Alleniana, quel mordente ai limiti del politicamente corretto ma con garbo. Come lancia spuntata il film colpisce nel segno ma non sbalordisce, non rimane proprio perchè manca la punta, quel valore aggiunto che compatta tutta la vicenda. Peccato. Gli elementi c’erano tutti (o quasi).
Un film che gioca con la vita più di quanto si possa pensare ad un primo sguardo, che riduce la morte a una mera liberazione dai mali e al fine di aiutare gli altri, una distorsione della realtà propria di chi rimane invischiato nel proprio ego ridotto a noia.
Voto: 6,4