Giovedì 26 febbraio, Rai Movie, ore 21.00.
Dal regista di Gomorra (e non solo) Matteo Garrone, un film che solo in superficie parla di tv, successo facile ed effimero… sotto sotto i temi sono universali: i sogni che son desideri, le illusioni della vita, la disperazione umana.
Reality
(id., ITA-FRA, 2012)
Regia di Matteo Garrone
Con
Aniello Arena
Loredana Simioli
Nando Paone
Graziella Marina
Nello Iorio
Nunzia Schiano
Rosaria D’Urso
Claudia Gerini
Ciro Petrone
Durata: 116 minuti
Trama:
Luciano è un pescivendolo napoletano dotato di una particolare simpatia, spesso si esibisce davanti ai clienti della pescheria. Un giorno, spinto dalla famiglia, partecipa ai provini per entrare nella casa del Grande Fratello. Da quel momento vive l’attesa come un’ossessione e la sua percezione della realtà non sarà più la stessa.
RECENSIONE
L’unico vero limite del film è che una volta innescato il meccanismo psicologico dell’ossessione di Luciano nei confronti del Grande Fratello, “Reality” vada con coerenza per una strada e segua solo quella rischiando di divenire prevedibile. Torna in mente Pasolini: non solo per una questione di statura intellettuale (che a Garrone di certo non manca), ma soprattutto per il coraggio di osare. Osare verso uno sfondamento del piano realista, per forzare l’immaginario grottesco che si era costruito, passare a un surreale più allucinato e trasgressivo: per un attimo ho persino sognato che la brevissima parentesi cattolica di Luciano potesse andare a colpire la Chiesa, quale altro “reality” da cui un’altra fetta di pubblico si lascia ipnotizzare. Però – chiarisco subito – a Garrone tutto ciò non interessava: il suo primario interesse era di narrare una storia, con toni fiabeschi, tanto da introdurci a questo mondo con quel dolly che, a volo d’uccello, segue la corsa della carrozza borbonica e poi, con altri due piani-sequenza ci porta al centro di una festa di matrimonio kitsch e cafona – tutto ciò con una costruzione del montaggio interno e un’attenzione per l’espressività dell’umanità che si va a dipingere degna di Fellini – riferimento principale anche del suo amico/rivale Sorrentino – (e per me il main theme di Desplat è una delle migliori composizioni dell’autore).
Questo Pinoccchio contemporaneo è lo specchio di una miseria che Garrone non ha la cinica voglia di crocifiggere, ma, anzi, finisce per rappresentare con un certo pathos le traversie della famiglia e di Luciano per l’incombere del grande occhio del reality show – bellissima la scena in cui il pescivendolo rimane inquietato dalla presenza di un grillo in soggiorno. La separazione tra realtà e reality si annulla (se c’è mai stata), si cambia modo di vivere, si diventa generosi (c’è quasi un omaggio al furore francescano di “Europa 51”) non per essere giusti agli occhi di Dio ma per esserlo agli occhi del GF. La fuga psicogena finale in cui Luciano riesce a entrare nella Casa, invisibile per tutti (ma non per la cinepresa di Garrone) è un ulteriore restringimento della realtà: se prima la rappresentazione era un gioco portato avanti da un guitto con vita da guappo (lo spiazzo dell’antica casa della famiglia del pescivendolo pare il fondale di un palcoscenico), adesso è l’unica realtà esistente, l’unica illuminata e chi resta fuori non è che, semplicemente, non esiste, ma non è degno di esistere.
L’interpretazione di Arena è pazzesca, una delle interpretazioni dell’anno senza dubbio e se consideriamo la bella prova d’orchestra di “Cesare deve morire” si può quasi dire che questi attori provenienti dal carcere non hanno nulla da invidiare ai professioni, anzi, nel caso di Arena si può affermare il contrario. (Noodles alias Giuseppe Gangi)
Curiosità:
Il protagonista della pellicola, Aniello Arena, è un detenuto del carcere di Volterra, condannato all’ergastolo per omicidio: era l’8 gennaio del ’91, giovane camorrista napoletano, aveva 23 anni e fu coinvolto nella strage di piazza Crocelle a Barra, la periferia di Napoli dove è nato e cresciuto. Morirono tre persone. Arrestato due anni dopo, ha scontato più di vent’anni – in diverse prigioni di stato – e grazie alla buona condotta oggi è in regime di semilibertà: ogni mattina esce alle 9.15, rientra alle 18.30. Lavora dirimpetto al carcere di Volterra, a Carte Blanche, l’organizzazione della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, la più celebre e la più speciale delle realtà artistiche nate in carcere, dove dieci anni fa Aniello ha iniziato a recitare.
«Sono napoletano e sono fiero di esserlo, ma vivere lì no. Non mi appartiene più come città. Sono cambiato e per come sono oggi non riuscirei a vivere in una città che è difficile, ferma nei suoi meccanismi». Se un giorno uscirà, dice, gli piacerebbe andare a Firenze o nel nord o dove lo porterà il teatro, il cinema, la notorietà.
Il film è uscito con lo stesso titolo in tutto il mondo: in Brasile è stato aggiunto il sottotitolo “La grande illusione”, mentre il titolo di lavorazione era La grande casa.
Prima di iniziare le riprese, Garrone era stato a lungo accostato a un progetto che avrebbe coinvolto (come fonte, come autore o come interprete? Non è dato saperlo) Fabrizio Corona, il noto fotografo protagonista di gossip e cronaca, attualmente in carcere.
Come in Gomorra, il film è parlato quasi sempre in dialetto napoletano e sottotitolato.
Le riprese hanno avuto luogo in massima parte nell’area vesuviana, in location quali la Villa Pignatelli di Montecalvo (dove abita Luciano), la Villa Pignatelli di Monteleone (dove Luciano ha la pescheria), la Chiesa dei Santi Marcellino e Festo. Le scene iniziali del film, quelle del matrimonio, sono girate all’albergo La Sonrisa di Sant’Antonio Abate – in seguito rese protagoniste di un vero reality, il boss delle cerimonie – mentre il primo provino di Luciano è ambientato nel centro commerciale Vulcano Buono di Nola.
Il film è stato presentato in concorso al Festival di Cannes e ha vinto il Grand Prix della Giuria.
Reality ha vinto tre David di Donatello (Fotografia a Marco Onorato, trucco a Dalia Colli, acconciature a Daniela Tartari), tre nastri d’argento (soggetto a Garrone e Massimo Gaudioso, co-autore anche della sceneggiatura, miglior sonoro ed effetti speciali) e tre Ciak d’oro (fotografia, scenografia a Paolo Bonfini e costumi a Maurizio Millenotti).
Ero molto molto prevenuto e invece è un film da vedere, veramente bello e interessante.
Uno dei capolavori italiano degli ultimi 15 anni, poi il tempo ci dirà se di sempre