Recensione in anteprima – E’ un revenge movie il ritorno sul grande schermo di Jennifer Garner in un ruolo di donna energica e vendicativa. Un film che si inserisce perfettamente nel genere ma che dimostra una troppo facile banalità in molti passaggi. Non ci si attendeva nessuna originalità ma il risultato è solo a tratti interessante. Al cinema dal 21 marzo.

Riley North (Jennifer Garner), moglie e madre di famiglia di Los Angeles, assiste impotente all’uccisione del marito e della figlia da parte di una gang di narcotrafficanti. Ferita nell’attacco, riesce comunque a testimoniare contro gli assalitori, ma a causa di un giudice corrotto le sue dichiarazioni sono invalidate e il processo annullato. Cinque anni dopo, Riley, nel frattempo scomparsa e trasformatasi in una spietata assassina, torna per portare a termine la sua vendetta: a uno a uno cercherà i responsabili impuniti della strage (primo fra tutti il boss della droga Diego Garcia), mentre la polizia di Los Angeles cercherà di fermarla e un’intera nazione la acclamerà come eroina.

Da mamma bancaria a iena

Il regista francese Pierre Morel ci immerge subito in un veloce e violento omicidio che Riley opera nel nostro “oggi” (che capiremo essere, nell’economia del film, la fine del 2017). Nel giro di pochi minuti piombiamo al 21 dicembre 2012. Qua e là le luci di Natale, un Natale caldo come si conviene in California, a Los Angeles. Siamo in una mattinata in cui Riley è intenta a fare la mamma:

“so che hai preso il permesso questa mattina”

Questo è quanto viene espresso dalla figlia Carly (Cailey Fleming) che capisce il sacrificio di una mamma per starle vicino anche solo per una vendita di biscotti di Natale.

Tutta la prima parte, molto da commedia, ci fa capire a spanne la situazione familiare. Una figlia che attraversa il periodo della cruda competizione della preadolescenza, un padre che si arrangia in lavoretti, una madre impiegata di banca abbastanza anonima e, sicuramente, non “in carriera”.

Una famiglia che marca una netta differenza con quello che è un primo stereotipo e cioè la famiglia californiana snob, con la madre all’ultima moda mantenuta da un marito manager e figlia biondina e viziata.

“non puoi prendere a pugni gli idioti altrimenti diventi idiota anche tu”

Riley risponde alla figlia quando questa vorrebbe che la madre rispondesse con un pugno alle provocazioni della madre snob della sua compagna di classe.

Come poi, un’impiegata di banca, che non vediamo aver nessun interesse per l’attività sportiva o le arti marziali e il combattimento, possa poi diventare una macchina da guerra in pochi anni, questo lo si ignora. Viene accennato dal film giusto quel paio di sequenze per giustificare (male) un passaggio estremamente forzato.

Una lunga scia di stereotipi

Dopo la vicenda iniziale, sicuramente ben calibrata nel voler indirizzare il sentimento di condivisione del dolore di Riley, si passa a quel 21 dicembre 2017 che certifica il ritorno sul territorio losangelino della stessa vedova North.

Nella parte centrale del film gli stereotipi si sprecano. Dal poliziotto corrotto, ai narcotrafficanti messicani e sudamericani. Dalla bella collega dell’FBI alla periferia di una Los Angeles molto più simile a una banlieu parigina post apocalittica. Sostanzialmente una visione monotematica e abbastanza semplicistica di un problema molto più complesso.

Chiaramente “Peppermint” non è volto ad approfondire questi problemi, il principale, forse, un sistema giudiziario corrotto da cui scaturisce la fortissima volontà di vendetta di Riley che sfocia nella giustizia privata più cieca.

A margine di tutto questo guazzabuglio di tematiche e stereotipi viene poi aggiunto, in via del tutto residuale, la rilevanza dei social network (soprattutto twitter) che sembrano appoggiare la vendetta di Riley.

Come Alita (e tutte le altre)

La “menta peperina” Riley ricorda molto tante altre donne cinematografiche che si trasformano, a causa degli eventi, in giustiziere capaci di andare fin in fondo nonostante i mezzi usati (persino l’omicidio).

Già nel sottotitolo, nella banale invenzione tutta italiana, si può notare il riferimento principale ad “Alita”, lì si trattava di un angelo della battaglia, qui si usa l’angelo per spiegarne la connotazione della vendetta.

La capacità di menare le mani e di sparare si possono ritrovare in Charlize Theron come “Atomica Bionda” e in Jennifer Lawrence in “Red Sparrow” quasi a completare un quadro di tre donne letali facendo intervenire una bionda, un riferimento al rosso e una bruna.

Per la motivazione di fondo come non ricordare la protagonista di “The Nightingale”, molto apprezzato a Venezia nel concorso del 2018.

C’è però da fare un distinguo. Le capacità di Riley appaiono inspiegabili rispetto al suo passato. Le scene di lotta appaiono confuse e i colpi di scena non sono nemmeno tali. Tutto questo è il risultato di una sceneggiatura molto debole anche per un revenge movie.

Voto: 5,7

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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