Recensione – Tra guerra, avventura e denuncia sociale, il nuovo film di Spike Lee è un calderone ribollente di tematiche poco bilanciate ma di grande attualità. Disponibile su Netflix dal 12 giugno.

Caccia al tesoro 

Paul, Eddie, Otis e Melvin sono quattro veterani afroamericani, sopravvissuti alla guerra in Vietnam. Insieme a “Stormin'” Norman, il loro caposquadra caduto in battaglia, formavano i Five Bloods, un gruppo la cui unione andava di là dell’appartenenza allo stesso plotone di fanteria. A unirli erano un legame speciale e un tesoro sepolto, insieme a Norm, nella giungla del Vietnam. Quasi cinquant’anni dopo i quattro amici ritornano laggiù, per chiudere i conti con il passato e con i suoi segreti inconfessabili.

Un film di straordinaria attualità 

Girato nella primavera del 2019, a partire da una sceneggiatura che era stata inizialmente affidata a Oliver Stone e che è stata poi rimaneggiata da Spike Lee e dai suoi collaboratori, Da 5 Bloods esce su Netflix con un tempismo impressionante, in un momento storico in cui l’America è sconvolta dalle rivolte legate al movimento Black Lives Matter. Il film del regista di Atlanta, infatti, intercetta alla perfezione gli umori e le tensioni che si respirano da settimane nelle strade statunitensi: coincidenza nient’affatto scontata, se si pensa che la sceneggiatura del film originariamente era una storia di guerra e di avventura, e che solo dopo essere finita nelle mani di Lee si è trasformata in un racconto fortemente politicizzato, che riflette in maniera quanto mai attuale tematiche da sempre care al regista.

Attraverso le vicende di Paul, Eddie, Otis e Melvin, i loro interrogativi e le loro scelte, si parla infatti di razzismo, di sete di giustizia, di quale debba essere il ruolo delle persone di colore all’interno della società americana. I quattro protagonisti hanno combattuto in prima linea in Vietnam per conto di un popolo che li ha sempre oppressi e contro un popolo che invece non li ha mai danneggiati (non a caso il film si apre con le dichiarazioni di Muhammad Ali, che nel 1967 dichiarò di rifiutarsi di combattere contro i vietcong dal momento che, a differenza dei bianchi, essi non lo avevano mai segregato, insultato o schiavizzato).

E ora, cinquant’anni dopo, desiderano fare i conti con i loro passato e prendersi una rivincita, riportando in patria il cadavere del loro caposquadra e recuperando quel tesoro che compenserebbe il mancato riconoscimento dei loro sacrifici. Il viaggio, però, sarà tutt’altro che semplice: i quattro veterani, cui si aggiunge il giovane David, figlio di Paul e quinto dei protagonisti cui fa riferimento il titolo, si troveranno infatti ad affrontare ostacoli esterni – la natura selvaggia, un ricettatore francese, una squadra di addetti allo sminamento, una banda di sedicenti poliziotti vietnamiti – e soprattutto interni al gruppo.

Come da tradizione quando si parla di cacce al tesoro (si pensi al classico “Il tesoro della Sierra Madre”, che insieme ad “Apocalypse Now” , più volte citato, rappresenta senza dubbio il principale reference di questa pellicola), la loro fratellanza verrà messa alla prova da incomprensioni, equivoci, diffidenze reciproche, avidità. E non tutti torneranno a casa.

Tanta, troppa carne al fuoco 

L’avventura dei protagonisti viene inserita all’interno di una cornice costruita con materiali di repertorio (come detto, il film si apre con una dichiarazione di Muhammad Ali e si chiude circolarmente con un discorso di Martin Luther King), che appaiono a mo’ di rapidi inserti anche durante il resto della visione: una tecnica, questa, che Spike Lee aveva sperimentato con successo già nel precedente Blackkklansman e che àncora perenemmente le vicende di finzione alla realtà.

Il cast, composto da nomi poco noti, è equilibrato e affiatato. Su tutte spicca senza dubbio la ruvida e intensa interpretazione di Delroy Lindo nei panni di Paul, protagonista nella seconda parte di un paio di monologhi allucinati davvero memorabili. Indirettamente, il personaggio di Paul è anche funzionale alla critica di Lee contro Donald Trump, dal momento che Paul, unico sostenitore del presidente, è anche il personaggio più disturbato del gruppo, incapace di superare i traumi della guerra.

Se dunque le scelte di casting sono apprezzabili, è invece molto discutibile l’idea di utilizzare nelle scene ambientate durante la guerra gli stessi attori delle parti che si svolgono nel presente: forse in questo modo il regista intendeva sottolineare come essi vivano ancora, di fatto, in quella dimensione, ma il risultato è straniante e inverosimile, considerando che tra le due linee temporali sono trascorsi ben cinquant’anni e che Chadwick Boseman, interprete di Norm, è palesemente più giovane degli altri.

Da un punto di vista cronologico, peraltro, risulta incongruente anche la figura della figlia che Otis scopre di avere in Vietnam: dovrebbe avere cinquant’anni, ma l’attrice ne dimostra molti meno. La sua presenza nell’economia narrativa, inoltre, è assolutamente marginale, a dimostrazione che il difetto principale di Da 5 Bloods” è proprio l’eccesso di carne al fuoco: sembra quasi che il regista si sia lasciato trasportare dalla passione per il progetto, inserendo una quantità di temi, personaggi e sottotrame che finiscono per minarne la compattezza tematica e narrativa. 154 minuti per una storia di questo genere sono francamente troppi.

Il film avrebbe dovuto essere presentato al festival di Cannes 2020.

Voto: 6,7 

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