Recensione in anteprima – Torino 36 – Festa Mobile – Scelto come film d’apertura del 36° Torino Film Festival, “The Front Runner” di Jason Reitman rappresenta una svolta nella filmografia del regista, che decide di abbandonare il filone del cinema prettamente sociale, per concentrarsi sulla vicenda storica della caduta di Gary Hart. Nelle sale italiane dal 21 Febbraio 2019.

Gary, magistralmente interpretato da un Hugh Jackman ricco di sfumature e profondità, rappresenta l’emblema del connubio spesso problematico, fra le necessità e le regole della politica e le maglie della stampa e dell’attività giornalistica.

Quando infatti Gary, esponente del partito democratico e senatore del Colorado dal 1975 al 1987, decise di concorrere per il Partito Democratico alla carica presidenziale, da iniziale portavoce di spicco e favorito vincitore del partito, si vide stroncare la corsa dallo scandalo sessuale che coinvolse la giovane di Miami Donna Rice Hughes (Sara Paxton).

Siamo nel 1988, agli albori di un movimento progressivo che porterà sempre più a far diventare il giornalismo l’attività spesso spietata, alla caccia del gossip e dello scandalo a ogni costo, di cui oggi vediamo gli strascichi estremi. Curioso può essere osservare che Donna Rice, oggi scrittrice e produttrice cinematografica, col tempo è diventata presidente e CEO dell’organizzazione Enough is Enough, sostenitrice della sicurezza su internet e pro-Trump.

Una politica al pedinamento

Il nuovo film di Jason Reitman si mostra quindi utile per tracciare la strada della politica americana e per capire come ora si sia arrivati ad avere un presidente la cui salita al potere è stata fortemente spinta e caricata dalla pressione mediatica, e che nel contempo si muove e difende oltre le barriere di Twitter, accusando continuamente la stampa di essere portatrice di “fake news”, in una caccia alle streghe contro la nuova Casa Bianca repubblicana.

Quando i media assumono spiccate connotazioni politiche, e la libertà di stampa portata agli estremi conduce a un rischio di anarchia e di perdita di fiducia nell’autorità delle notizie per un popolo sempre più assetato di gossip, dove si può trovare la luce di una verità piena?

Forse si può avere una chiave di lettura nella frase pronunciata da Gary Hart ancora agli inizi della corsa presidenziale:

“Il mondo cambia quando ai giovani importa”

Spetta alla nuova gioventù cercare una via d’uscita dalla fossa delle menzogne e della perdita di fede nell’autorità in cui rischiamo di inabissarci. Che a trasmetterci il messaggio sia un regista di quarant’anni, parte di una nuova generazione di cineasti, e voce di storie soventemente volte ad analizzare ragazzi e adolescenti, può essere interessante.

Storia e controstoria

Ciò che Gary Hart avrebbe potuto rappresentare se avesse vinto la lotta contro i media, può solo essere lasciato all’immaginazione dei posteri. Certo è che i suoi iniziali valori di una economia nuova, una politica democratica, decadde con l’arrivo alla Casa Bianca di George H. W. Bush, e poi di Clinton, con ogni deriva successiva nel partito repubblicano.

Al confronto con ciò che ora avviene con la nuova ondata a livello mondiale del femminismo e con le accuse sessuali dirette al presidente americano, la vicenda di Gary Hart, vittima di una unica donna causa di scandalo, una storiella che neanche il film ci rivela se essere davvero avvenuta o solo frutto di un rigonfiamento mediatico, appare quasi grottescamente ironico.

Un cast di forte spicco

Jason Reitman, adattando il romanzo di Matt Bai “All the Truth is Out” del 2014, riesce bene a inquadrare la complessa vicenda mossa fra la Casa Bianca, gli uffici presidenziali e giornalistici, in primis del The Washington Post, e il privato di Gary Hart, con una regia mai approssimativa, seppure a volte schematica, ma ben dosata fra toni pungenti e vivaci, anche grazie a un cast senza dubbio di spicco.

Oltre infatti al protagonista Hugh Jackman, di assoluto rilievo sono Vera Farmiga (già volto di Reitman per il film del 2009 “Tra le nuvole”, e qui magistrale interprete di Lee Hart, moglie di Gary), J. K. Simmons, ormai icona del regista, e Alfred Molina (Ben Bradlee, direttore esecutivo del Washington Post dal 1968 al 1991).

L’ultimo messaggio che ci lascia Gary, riprendendo le parole di Thomas Jefferson, in un epilogo emblematico, è più che mai attuale, con la prospettiva di un leader di cui ci si può arrivare persino a vergognare.

Voto: 7,2

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *