Recensione – Vincitore lo scorso anno dell’Orso d’oro alla Berlinale e candidato come miglior film straniero agli Oscar 2018, Corpo e anima della regista ungherese Ildikó Enyedi racconta con sottile ironia l’affascinante storia di due personaggi a modo loro borderline, del loro incontro prima in sogno e poi nella realtà, della paura di vivere e della necessità di rischiare, celebrando con immagini ricche di poesia le imprevedibili forme che può assumere il destino per compiere il suo corso.
Mária (Alexandra Borbély), insicura e riservata ai limiti dell’autismo, maniaca dell’ordine -nella vita e sul lavoro- ai limiti dell’ossessione, è la nuova puntigliosa responsabile del controllo qualità in un mattatoio di Budapest. Endre (Géza Morcsányi) di quel mattatoio è invece il direttore finanziario, un po’ avanti negli anni e con un braccio paralizzato, che guarda tutti dall’alto della finestra del suo ufficio. Un giorno, a causa di un fatto imprevisto, tutti i dipendenti vengono esaminati dalla psicologa aziendale (Réka Tenki) ed emerge così, per caso, che Mária ed Endre sognano ogni notte, entrambi, a loro insaputa, di essere due cervi innamorati in un bosco innevato.
Vedere un cervo in sogno, nella cultura popolare, è un riferimento alla linfa vitale con le sue pulsioni e la sua forza spirituale. Corpo e anima. Mária ed Endre ne sognano due, uno ciascuno, liberi e pacifici che insieme si abbeverano a un ruscello e scorrazzano tra gli alberi e le radure di una montagna imprecisata. Anche nella vita reale i protagonisti sono “animali selvatici”: entrambi con problemi relazionali, incompleti, vivono di routine (sempre lo stesso cibo, sempre gli stessi gesti) e di – volontaria – solitudine. Finché qualcosa di talmente personale come può essere un sogno li riunisce con un altro sé, così diverso ma allo stesso tempo così simile: due persone che si credevano completamente sole, scoprono di condividere qualcosa. Ildikó Enyedi torna a indagare, senza dimenticare una sottile ironia, le complesse sfaccettature dell’essere umano, le sue profondità, i suoi recessi.
Si addentra nei meandri di un corpo ancora chiuso nel suo guscio come quello di Mária, impaurita da qualsiasi contatto fisico, che resta ostinatamente in cura da uno psichiatra infantile e replica con infallibile memoria i momenti di vita vissuta come fossero una scena di gioco con i Lego. Il corpo di Endre è invece piagato dalla paralisi con cui, però, ha imparato a convivere, e dall’isolamento nel quale si autoconfina allontanando da sé tutto e tutti. Persone che hanno forse più paura di vivere che di morire, consapevoli che qualcosa manca nelle loro esistenze (“Vuole trovarsi un uomo, dottoressa?”, un’inserviente chiede a Mária che si guarda allo specchio, “Sì” risponde lei col candore di un bambino senza neppure pensarci) ma non hanno il coraggio di cambiarle e solo quando dormono e sognano, sublimano le loro vite incompiute: “le nostre anime di notte” sono altro da noi. O forse no.
La rivelazione del sogno avviene di fronte a una psicologa procace e disinibita; i loro corpi si incontrano goffamente e a debita distanza nella mensa aziendale all’ora del pranzo (come dimenticare la valenza simbolicamente sensuale del cibo e del mangiare?); i loro sguardi sospettosi si incrociano nei locali del mattatoio dove anche noi guardiamo gli animali negli occhi un attimo prima del colpo di grazia e, un attimo dopo un rumore sordo, vediamo il sangue scorrere sul pavimento.
Un corpo che cade e un animale che muore ma per il quale, come ricorda Endre durante il colloquio con un nuovo assunto, non si può – non si deve- smettere di provare pietà, nonostante tutto. Corpo e anima, ancora una volta. Allora avviene il cortocircuito tra dimensione onirica e dimensione reale, portando l’una a stimolare l’altra e viceversa: Mária ed Endre si danno appuntamento nel sogno prima e nella realtà poi ma, all’inizio, solo per provare a sognare insieme. L’avvicinamento sarà cauto, lento, non facile come tutti i momenti di crescita e i cambiamenti profondi che partono dall’anima e, passando per il corpo, all’anima ritornano.
Ildikó Enyedi filma immagini cariche di fascino e poesia, ricche di dettagli che finiscono per diventare i veri protagonisti della scena, segue i suoi personaggi da vicino ma con rispetto. Spesso li colloca dietro vetrate, grate, pilastri, nascondendoli o incorniciandoli li isola da quel che hanno intorno, li esalta e cerca di cogliere le loro improvvise incursioni in ciò che li circonda, evidenziando, attraverso un’accurata costruzione dell’inquadratura, i particolari come se li vedessimo attraverso i loro occhi.
Le ottime interpretazioni tutte in sottrazione di Alexandra Borbély e Géza Morcsányi ci regalano due personaggi malinconici e a tratti buffi, che non possono più aspettare di vivere nel momento in cui il destino, prepotentemente, li fa incontrare in modo imprevedibile (ma non poteva essere altrimenti) e li mette di fronte a delle scelte che comportano una presa di coscienza e una reazione necessaria. A costo di rischiare, a costo di affrontare quel che accade, a costo di vivere davvero.
Voto: 8