Recensione in anteprima – Il 21 gennaio esce nelle sale italiane Il figlio di Saul, opera d’esordio del regista ungherese László Nemes. Un film forte, intenso e toccante che porta sul grande schermo la crudeltà umana e l’orrore dei campi di concentramento. Presentato in anteprima allo scorso Festival di Cannes, dove ha ottenuto il riconoscimento del Gran Premio della Giuria, e nominato all’Oscar come miglior film straniero, Il figlio di Saul è uno degli eventi cinematografici più attesi della stagione.

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Ottobre 1944. Saul Ausländer (interpretato da Géza Röhrig), ebreo ungherese, fa parte dei Sonderkommando del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. I Sonderkommando erano gruppi di prigionieri scelti dalle SS per assisterli nello sterminio degli altri prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, Saul scopre il cadavere di un ragazzino in cui crede di riconoscervi suo figlio. Inizia qui la missione, impossibile, del protagonista: sottrarre le spoglie del ragazzo dalle fiamme e trovare un rabbino per poter dare al cadavere una degna sepoltura. Questa decisione porterà Saul a voltare le spalle ai propri compagni e ai loro piani di ribellione e di fuga.

L’idea per Il figlio di Saul viene al regista dopo aver consultato alcuni scritti, contenuti nel testo La voce dei sommersi, di alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz. Queste parole rappresentano un’importante testimonianza in quanto descrivono l’organizzazione del lavoro, come veniva gestito il campo e le procedure di sterminio degli ebrei.

Il ritmo narrativo del film procede serrato ed è scandito dal desiderio del protagonista di poter dare una degna sepoltura al corpo del ragazzo, una missione che sembra priva di scopo all’interno di un campo di sterminio. Invece proprio nell’atto di Saul, il suo voler portare rispetto per il corpo di un morto, ritroviamo quell’umanità ormai annientata dalla furia nazista.

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La macchina da presa segue Saul, spesso inquadrato di spalle, per tutta la durata del film in modo che lo spettatore, assumendo il punto di vista del protagonista, possa vedere gli orrori di cui egli è testimone. Non si tratta però di soggettive vere e proprie poiché sullo schermo è sempre presente Saul come personaggio.

Il formato dell’immagine ridotto, il classico Academy, che limita lo sguardo e l’utilizzo della pellicola 35mm contribuiscono a creare una certa instabilità nelle immagini. Inoltre le scelte registiche di non utilizzare campi totali ma solamente inquadrature ravvicinate, parziali e, a volte, addirittura sfocate sono estremamente efficienti e cariche di significato emotivo. Le inquadrature, volutamente semplici e scarne, lasciano spazio ad un’altra componente importante del film: il sonoro. I rumori, le grida dei prigionieri e gli ordini urlati dai nazisti suggeriscono allo spettatore ciò che avviene attorno a Saul, senza però essere necessariamente posto all’interno del campo visivo. Alle scene dove prevalgono le grida e i rumori del lager si alternano scene dai silenzi

pesanti, dove la sensazione di angoscia e paura è sempre presente e costante. Anche i dialoghi sono brevi, spesso sussurrati e ridotti all’essenziale: a parlare sono i volti e, soprattutto, gli occhi dei personaggi.

Nel film non c’è alcuna miticizzazione. Lo stesso Nemes, che ha avuto parte della propria famiglia assassinata ad Auschwitz , afferma di aver “sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento” in quanto “provano a costruire storie di sopravvivenza ed eroismo” dando però “una concezione mitica del passato”. E proprio qui risiede la scelta fondamentale del regista: non trasformare nessuno in eroe e scegliere il punto di vista non del sopravvissuto ma di un prigioniero fra i prigionieri.

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Il figlio di Saul è un film crudo, profondo, commovente, dove l’impatto emotivo supera di gran lunga quello visivo. Un film che riporta sul grande schermo gli orrori dell’Olocausto e la crudeltà spietata dei nazisti, ma che mostra anche il gesto umano di un prigioniero in un luogo in cui di umano non c’è più nulla.

Voto: 8

Di Silvia

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