Recensione in anteprima – Dopo il film remake del 2019 il Re Leone torna sul grande schermo con la regia di Barry Jenkins. Si tratta di una sorta di prequel, la storia narrata, infatti è quella di Mufasa, padre di Simba sin dalla sua nascita. Un ottima realizzazione tecnica in CGI super realistica che, comunque, non ritrova quella magia propria dell’animazione del 1994. Al cinema dal 19 dicembre.
La storia
Nelle Terre del Branco della Tanzania ogni cosa ha il suo posto, anche una giovane leonessa come Kiara (Blue Ivy Carter/Emma Cecile Rigonat), principessa figlia di Simba (Donald Glover/Marco Mengoni) e Nala (Beyoncè/Elisa), che come unica preoccupazione ha quella dei tuoni durante i temporali. Ed è proprio durante una notte tempestosa, quando i suoi genitori si allontanano per dare alla luce il fratellino Kion, che Kiara viene intrattenuta da Rafiki (John Kani/Toni Garrani) e dall’immancabile commento di Timon (Billy Eichner/Edoardo Leo) e Pumbaa (Seth Rogen/Stefano Fresi) con la storia di suo nonno Mufasa (Aaron Pierre/Luca Marinelli) e di come è diventato re.
Tutto inizia con Mufasa che è ancora un cucciolo inesperto al seguito dei suoi genitori, Masego (Keith David/Eugenio Marinelli) e Afia (Anika Noni Rose/Domitilla D’amico/Karima), mentre i tre vanno alla ricerca della mitica Milele, la terra dell’abbondanza dove finalmente troveranno rifugio dalla siccità.
“Mufasa: The Lion King” (2024) vuole essere un nuovo, affascinante capitolo nell’universo de “Il Re Leone”, offrendo una prospettiva nuova e originale sulla storia iconica di Simba e della sua famiglia. Ambientato in un contesto prequel, il film esplora la vita di Mufasa, il padre di Simba, svelando le sue origini e il percorso che lo ha condotto a diventare il re saggio e giusto che abbiamo conosciuto già nel 1994.
La famiglia e Taka
La narrazione di “Mufasa” si concentra sulle sue sfide e sue vittorie mentre naviga tra le dinamiche sociali e familiari della Savana. La decisione di approfondire il personaggio di Mufasa permette di esplorare temi universali come la fratellanza, il sacrificio, l’amore e la ricerca dell’identità.
E’ proprio attraverso la conoscenza di Taka (Kelvin Harrison Jr/Alberto Boubakar Malanchino) che Mufasa conosce anche la complicità infantile tra fratelli, la crescita insieme nell’adolescenza e gioventù. Un percorso di crescita, per i due, contemporaneo, parallelo, ma per certi versi differente in quanto i due hanno caratteri diversi, aspirazioni diverse. Taka, che nel finale rivelerà il suo nuovo nome anche se tutto il pubblico chiaramente lo conosce, offre ulteriori punti di riflessione su come la non realizzazione, il fallimento possa portare a decisioni di vita sbagliate e pericolose.
Cerchi sempre più ampi
Dal punto di vista sociologico, il film affronta le strutture di potere all’interno del regno animale e le sue ripercussioni sul concetto di leadership e responsabilità. Mufasa emerge come un simbolo di giustizia e di moralità in un mondo dominato da conflitti e rivalità. L’eterna lotta tra bene e male è qui evidente ma si reinterpreta attraverso personaggi che si trasformano a causa degli eventi drammatici che subiscono.
“Il Re Leone” ha istruito gli spettatori su come la vita sia un cerchio: nascita, crescita e morte per poi avere una nuova nascita. Il film ripercorre nuovamente questo meccanismo. “Mufasa”, il film, presenta così un incipit che ci fa conoscere Kiara, la figlia di Simba e Nala. La piccola leonessa, spaventata da agenti atmosferici e dall’idea di essere abbandonata è spaesata e solo l’intervento di Rafiki permette alla piccola di affrontare le sue paure e insicurezze attraverso il racconto della storia di suo nonno.
Questo passaggio iniziale costituisce un espediente narrativo classico, forse troppo scontato e abusato. La particolarità sta nel fatto che solitamente queste storie vengono raccontate dai nonni ma, per gli eventi che lo spettatore ha visto nel film del 2019 (e ancor prima nel film d’animazione 1994) Mufasa, il nonno, non può essere presente e, quindi Rafiki supplisce a questa figura.
L’animazione fotorealistica
Dal punto di vista tecnico, “Mufasa” utilizza avanzate tecniche di animazione digitale, come quelle già viste ne “Il Re Leone” del 2019, che combinano animazione CGI con aspetti fotorealisti. La cura nei dettagli visivi e nell’illuminazione contribuisce a creare un’atmosfera immersiva e suggestiva. La colonna sonora, composta principalmente da Lin-Manuel Miranda (“Encanto”, “Oceania” tra gli altri), offre epicità e musiche di grande ritmo ma non ha la stessa efficacia di quanto proposto da Hans Zimmer sia nel film del 1994, sia nel film del 2019. Le canzoni cantate, per l’Italia da artisti come Mengoni, Elodie, Elisa intrattengono e aiutano lo svolgimento della narrazione ma sembrano un po’ private di una certa anima che, invece, ha reso immortali le canzoni del capitolo originale.
La regia di Barry Jenkins, noto per la sua capacità di intrecciare storie profondamente umane, si sposa perfettamente con il tono del film. Anche se, forse, alcune volte si perde in primissimi piani e movimenti circolari che non aggiungono nulla alla dinamica della scena. La sceneggiatura, scritta con un occhio attento alle dinamiche familiari e alle emozioni, restituisce una narrativa densa di significato, senza sacrificare il divertimento e l’intrattenimento che caratterizzano il franchise. Anche se, bisogna dirlo, gli intramezzi di Timon e Pumbaa che spezzano la narrazione e sfondano la quarta parete con riferimenti anche al successo del film del 1994, non sono sempre divertenti ed efficaci.
James Earl Jones
Il film inizia con la voce storica di Mufasa del compianto James Earl Jones, lasciata in originale anche nella versione doppiata in italiano. Si tratta di un passaggio oltremodo famoso del film del 1994, un ottimo e rispettoso tributo a una delle voci più emblematiche della cinematografia mondiale. “Mufasa, il Re Leone” è un film che intrattiene, ben fatto, diretto e interpretato. La tecnica d’animazione, estremamente realistica è affascinante ma non ha lo stesso “calore” di un’animazione classica.
Voto: 7