Recensione in anteprima – Venezia 82 – In concorso – Con Duse Pietro Marcello rifiuta il biopic “dalla culla alla tomba” e incide un ritratto frammentato, elegiaco, dei giorni estremi di Eleonora Duse. Presentato alla 82esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia esce al cinema il 18 settembre.

La trama

Il film si concentra sulla fase discendente dell’attrice (1858–1924) – tra dopoguerra e ascesa del fascismo – per rintracciarne non la cronaca, ma lo spirito in rivolta: l’arte come ultimo spazio di verità, la scena come atto politico, l’identità come resistenza al tempo. Non c’è agiografia, ma una poesia civile che alterna materia d’archivio e finzione, in linea con la ricerca del regista già vista in Martin Eden: un collage storico-emotivo che evita la calligrafia per inseguire il tremito di una voce.

Valeria Bruni Tedeschi: il fuoco prima dell’imitazione

Valeria Bruni Tedeschi non “interpreta” Duse: le diventa amica, come lei stessa ha raccontato, scegliendo il fuoco interiore al mimetismo. Niente lenti scure, niente trucco di scena: un volto nudo, affaticato, che accetta la fragilità come parte dell’arte. La sua recitazione lavora di contrappunti: tosse e sospensioni, incertezze che diventano gesto, sguardi che si sciolgono in voce e viceversa. È una performance di consunzione, capace di portare in primo piano il prezzo fisico e intimo della dedizione all’arte.

È attorno a questa vibrazione che il film costruisce la propria cadenza, fino al canto del cigno della protagonista.

Accanto a lei, Fanni Wrochna disegna un’assistente devota senza ombra di servilismo: Desirée è sguardo e cura, un contrappeso affettivo alla solitudine di Eleonora. Noémie Merlant offre a Enrichetta un dolore trattenuto, fatto di distanze e parole mancate, mentre Fausto Russo Alesi dà a D’Annunzio spigoli e seduzione, bilanciando fascino e opportunismo. La breve apparizione di Sarah Bernhardt (Noémie Lvovsky) è un lampo di memoria del teatro come arena del mondo.

Arte e potere: una stretta di mano amara

Duse torna in scena con Ibsen e sogna D’Annunzio, ma il mondo, fuori dal palco, macina storia: dopoguerra, crisi, fascismo. Nella visita a Mussolini (Giovanni Morassutti) c’è tutta l’ambiguità del rapporto fra arte e potere: una stretta di mano necessaria per sopravvivere, senza però capitolare nell’anima. Marcello filma l’incontro con toni agrodolci, lasciando allo spettatore la tensione etica del compromesso. Il teatro, intanto, diventa campo di battaglia: ogni replica è un atto di resistenza, ogni parola una fenditura nel buio della Storia.

Regia, fotografia, costumi: la materia viva del tempo

La regia di Marcello procede per innesti e riverberi. I filmati d’epoca puntellano la narrazione e ne espandono il respiro: non spiegano, evocano, sedimentando un sentimento di tempo in disfacimento. La fotografia di Marco Graziaplena lavora sull’aria, più che sulle superfici: una luce lattiginosa che sospende il realismo senza scivolare nel museo. Le scenografie di Gaspare De Pascali costruiscono luoghi che sembrano abitati dalla memoria – teatri, camerini, interni veneziani – mentre i costumi di Ursula Patzak definiscono l’“eleganza disordinata” della Duse: stoffe vissute, cromie smorzate, una sartoria che respira col corpo dell’attrice invece di ingabbiarlo.

Sul piano sonoro, le musiche originali di Marco Messina, Sacha Ricci e Fabrizio Elvetico intrecciano brani d’epoca e timbri contemporanei: una scelta anacronistica quanto basta per mettere in corto circuito passato e presente, fedelissima allo sguardo del film.

La scena e l’ombra: quando il palco resiste meno al cinema

C’è una coerenza poetica nel non ridurre Duse a santino, eppure, proprio dove il film interroga la rappresentazione del teatro, la tensione cinematografica a tratti si affievolisce. Le sequenze sul palcoscenico – per stessa ammissione del regista, difficili da rendere – a volte cercano la grana del rito senza trovarne il brivido dell’istante, e la costellazione dei personaggi secondari (giovani attori, figure di contorno) resta talvolta in filigrana.

È lo scotto di un’opzione stilistica che predilige il respiro elegiaco alla spinta drammaturgica: chi cerca il furor iconico di Martin Eden potrebbe sentire meno l’urgenza visiva. Ma è anche la condizione per lasciare a Bruni Tedeschi lo spazio di un film-camera, dove la vibrazione dell’attrice coincide con quella del personaggio.

Il corpo dell’attrice come ultimo territorio politico

Il cuore del film è la politica del corpo: non c’è diva, c’è una donna senza maschere, che sbuffa, sbaglia, inciampa e proprio così vince il tempo, disobbedendo all’idea di perfezione. Qui Duse si fa film contemporaneo: il gesto di Eleonora buca il secolo e arriva a noi, in un presente che Marcello definisce “di confusione” e che chiede disobbedienza civile: l’arte come pratica dal basso, come ossigeno (parola chiave anche per Bruni Tedeschi). In questo attraversamento, la relazione madre-figlia e il fallimento come possibilità aprono un discorso sull’emancipazione che non cerca slogan: si può rinunciare a tutto, ma non alla propria natura.

Duse è un poema del crepuscolo: imperfetto, a tratti diseguale, ma abitato da un’anima. Marcello firma un ritratto non pacificato in cui Valeria Bruni Tedeschi trova uno dei vertici della sua carriera. È cinema che ascolta invece di proclamare, che evoca invece di ordinare, e che, proprio per questo, rimane.

Voto: 8.2

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