Recensione in anteprima – Venezia ’24 – In concorso – Queer, il nuovo film di Luca Guadagnino, tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, è un’opera che si muove ai margini dell’identità, del desiderio e dell’alienazione. È stato presentato in anteprima in concorso all’81esima Mostra del Cinema di Venezia e arriva nelle sale italiane il 17 aprile.

Un racconto intimo e ambiguo

Ambientato nella Città del Messico degli anni Cinquanta, il film segue le vicende di Lee (Daniel Craig), un uomo americano in esilio autoimposto, che vive come un fantasma in una terra straniera, rifugiandosi in locali fumosi, pensioni modeste e in un’esistenza sfuocata tra droga e solitudine. Quando nella sua vita compare Allerton (Drew Starkey), un giovane e misterioso ex marine, Lee ne viene subito attratto, dando inizio a un rapporto teso e sbilanciato, dove il desiderio prende il sopravvento su qualsiasi logica.

La narrazione si muove in un’atmosfera sospesa, quasi onirica, fatta di notti afose, locali fumosi e dialoghi intrisi di sottintesi. Guadagnino non adotta uno sviluppo lineare, ma costruisce il film come una serie di frammenti emotivi e sensoriali che parlano più al subconscio dello spettatore che alla sua razionalità. “Queer” non è tanto un racconto d’amore o di passione, quanto la cronaca di una solitudine radicale, una ricerca impossibile di reciprocità nel desiderio.

Chi si avvicina a questo film deve essere pronto a lasciarsi trasportare da un racconto rarefatto, in cui le parole non dicono tutto e le immagini suggeriscono più di quanto mostrino. È un’opera che sfugge alle classificazioni facili, restituendo un’esperienza immersiva, tanto disturbante quanto seducente.

Il linguaggio del desiderio e della solitudine

Queer” è un film che rifiuta le strutture narrative tradizionali. È più vicino a un flusso di coscienza visivo che a un racconto coerente. In questo risiede la sua forza e, per molti, anche la sua difficoltà: è un film che si presta a molte letture ma che non offre nessuna chiave definitiva.

Lontano da ogni estetica queer patinata o celebrativa, il film sceglie di muoversi nel territorio più scomodo del desiderio: quello non corrisposto, che non redime, che non trasforma ma consuma. Guadagnino non cerca mai la simpatia dello spettatore per Lee: lo osserva, lo mette a nudo, e chiede al pubblico di confrontarsi con la sua fragilità e la sua ossessione senza giudicare, ma nemmeno giustificare.

Anche la fotografia, curata da Sayomphu Mukdiphrom, gioca un ruolo fondamentale. Le luci calde e polverose della Città del Messico si mescolano con le ombre profonde degli interni, creando un contrasto visivo che rispecchia perfettamente l’ambiguità emotiva dei personaggi. Anche la seconda parte, composta da viaggi nella giungla e nella psiche, è fortemente valorizzata dal lavoro sulla fotografia e sulla resa estetica. La colonna sonora, discreta ma inquietante, accompagna le immagini con discrezione, sottolineando la tensione latente senza mai esploderla.

Il desiderio in “Queer” non ha nulla di romantico: è febbre, ossessione, vertigine. La relazione tra Lee e Allerton non evolve secondo le dinamiche classiche della seduzione o della conquista, ma rimane inchiodata a una distanza incolmabile. Lee, interpretato magistralmente da Daniel Craig in una delle sue prove più sottili e interiorizzate, è un uomo scisso, diviso tra il bisogno di annullarsi nell’altro e l’incapacità di accettare il rifiuto. Allerton, invece, resta una figura sfuggente, quasi mitologica, interpretata con glaciale ambiguità da Drew Starkey. La sua presenza sullo schermo è ipnotica, ma volutamente opaca: è più un’idea di desiderio che una persona reale.

Guadagnino e la filosofia del corpo

Luca Guadagnino ha sempre fatto del desiderio e della corporeità i fulcri del suo cinema. Da Io sono l’amore (2009) a Call Me by Your Name (2017), passando per il turbante Suspiria (2018) e il carnale Bones and All (2022), il suo sguardo è stato quello di un regista capace di indagare la vulnerabilità umana attraverso la bellezza e la disgregazione e la sua filmografia è costellata di personaggi in fuga da sé stessi o alla ricerca di un modo per abitare il proprio corpo e la propria interiorità.

È difficile non vedere in “Queer” anche un gesto profondamente personale. Guadagnino, che ha sempre giocato con l’ambiguità dei suoi personaggi, sembra qui parlare in prima persona, attraverso una materia emotiva cruda e non mediata. La scelta di adattare Burroughs, autore controverso e simbolo della beat generation, è anche un’affermazione di libertà espressiva, di coraggio artistico.

Queer” è un film difficile, forse volutamente ostico, ma è anche una delle prove più sincere e coraggiose del regista. Un’opera che non concede nulla, che richiede attenzione e apertura, ma che, proprio per questo, non lascia indifferenti.

Voto: 6.5

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