Recensione in anteprima – Venezia ’24 – Fuori concorso – Film autobiografico sul rapporto tra la regista e il padre, il grande Luigi Comencini, “Il tempo che ci vuole” è una pellicola intima e toccante, una riflessione sul rapporto padre-figlia e sulla magia del cinema. Al cinema dal 26 settembre.

La trama 

Luigi e Francesca (Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano), padre e figlia, condividono la passione per il cinema, nonostante le diverse scelte di vita e i modi di stare al mondo. La storia è ambientata sul set di “Pinocchio”, il film a cui sta lavorando Luigi in quei giorni. Lei è una bambina ma lui le parla con serietà, compostezza e rispetto come si fa con un’adulta.

Francesca cresce e diventa ragazza in un periodo storico di cambiamento, ricco di lotte politiche e di rivoluzioni sociali, ma purtroppo anche di stragi. La sua passione per il cinema la accompagna sempre ma la magia fa spazio all’insicurezza. È proprio in questo frammento della storia italiana che compare e si diffonde nel Paese l’eroina, che segna e stravolge profondamente la vita di Francesca e della sua generazioni. Luigi è disarmato, non sa come reagire, ma decide di starle accanto portandola con sé a Parigi.

Un film intimo e personale 

Il tempo che ci vuole è senz’altro quello impiegato da Francesca Comencini per realizzare questo film: la regista ha dichiarato in più di un’occasione, infatti, che questa è l’opera che aspettava di fare da tutta la vita. A sessantatré anni, ha sentito che il momento era giunto e ha sfornato uno dei suoi film migliori. “Il tempo che ci vuole” è infatti una pellicola meditata, un film intimo, personale e coraggioso, con il quale la Comencini fa i conti con la propria giovinezza burrascosa e con la figura ingombrante del padre Luigi, uno dei giganti del cinema italiano. Sono totalmente assenti le figure della madre e delle sorelle: il focus è interamente sul rapporto padre-figlia, in un’atmosfera ben collocata cronologicamente ma allo stesso tempo sospesa nel tempo, proprio come sono i ricordi.

Si comincia con la storia di “Pinocchio”, di cui Luigi Comencini realizzò una straordinaria trasposizione televisiva: la piccola Francesca cresce su questo set e la storia del burattino di legno diventerà metafora ricorrente della sua vita. Uomo colto e pacato, capace di parlare sempre ad altezza di bambino e consapevole che la vita vera viene sempre prima dell’arte (“Prima la vita” era il titolo di lavorazione di questo film), Luigi è però anche una figura ingombrante, che suo malgrado rischia di trasmettere disagio e insicurezza alla figlia.

Sin da bambina, Francesca fatica a trovare il proprio posto (è magnifica la scena in cui, durante le riprese di Pinocchio, corre con l’ansia di ritrovarsi sempre dentro l’inquadratura): crescere all’ombra di un padre del genere è dura e, a vent’anni, la ragazza attraversa una fase di ribellione che la porterà sulla strada della dipendenza dalle droghe, da cui Luigi la aiuterà a tirarsi fuori.

Due attori eccezionali 

L’altro grande tema del film è proprio il cinema, che è il mondo in cui Francesca cresce e da cui finisce per allontanarsi, ma a cui poi ritorna, proprio come fa con suo padre. La magia del cinema impregna la sua infanzia e da grande, una volta superata la sua dipendenza, sarà proprio nel cinema che troverà il proprio posto, raccogliendo l’eredità del padre ma trovando la propria voce (Luigi non si sente a suo agio con le autobiografie, mentre Francesca esordisce proprio con un’opera semi-autobiografica).

A prestare il volto ai due protagonisti sono il veterano Fabrizio Gifuni e la giovane Romana Maggiora Vergano, divenuta celebre per il ruolo di Marcella in C’è ancora domani”: il primo è come al solito impeccabile nel calarsi nei panni di Luigi in differenti fasi della vita, ma la seconda gli tiene testa con un’interpretazione di grande intensità; insieme, i due danno vita a scene di grande impatto emotivo, mostrando le fragilità dei loro personaggi e la forza del legame che li tiene uniti. Se il film funziona così bene, gran parte del merito è loro.

Quello dei film incentrati sull’infanzia e la giovinezza dei loro autori è un trend che negli ultimi anni ha dato vita a pellicole molto riuscite, da “Roma” di Alfonso Cuaròn a E’ stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, passando per Belfast di Kenneth Branagh e The Fabelmans di Steven Spielberg. “Il tempo che ci vuole” si inserisce perfettamente in questo filone: forse non raggiunge il livello di questi titoli, ma conferma la bontà di questo trend e si fa apprezzare per delicatezza, sincerità e forza emotiva. In fondo, è la storia di un’autrice che, dopo tanti anni, ha voluto dire grazie al padre che l’ha resa ciò che è diventata.

Voto: 7,5

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