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Recensione in anteprima – Film vincitore del premio del pubblico al “Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario”, è dedicato a tutti i prigionieri iraniani che hanno sacrificato la vita per la libertà e a tutti gli iraniani che vivono in quella grande prigione chiamata Iran. Nelle sale italiane dal 7 marzo.

Il racconto di un paese

La regista iraniana naturalizzata svedese Nahid Sarvestani Persson rappresenta con questo film il desiderio di dar voce a chi alla propria ha dovuto rinunciare. Dopo la rivoluzione iraniana khomeinista degli anni 1978-1979, infatti, l‘Iran ha subito, con la fine della monarchia, il dominio della legge del Corano, e da allora nel paese ha prevalso il regime repressivo islamico.

La stessa Nahid partecipò alla rivoluzione con una piccola organizzazione comunista. I Khomeinisti rapirono suo fratello nel 1979, per poi ucciderlo. Le ultime proteste contro il Regime hanno avuto luogo nel 2019, in seguito all’aumento dei prezzi della benzina. In tre giorni, almeno 1500 persone sono state uccise nelle strade dall’esercito della Guardia Rivoluzionaria, e più di 7000 civili sono stati arrestati. Molti, in seguito, con l’accusa di aver mosso guerra contro Dio, sono stati condannati a morte.

Dare voce al popolo

Protagonista del racconto di Nahid Persson è Masih Alinejad. Giornalista, blogger, scrittrice e attivista iraniana, fu arrestata nel 1994 per aver prodotto volantini critici contro il governo.

In esilio volontario dal 2014 a New York, ha continuato a lottare per cercare di trasmettere al mondo i soprusi subiti dagli iraniani. Ogni giorno riceve dai cittadini del paese più di mille messaggi, comprendenti foto e video, di gente che, sfidando il Regime, narra la propria storia, e che, attraverso la voce di Nahid, trasmette la propria. Sono specialmente donne, quelle che racconta attraverso il suo programma Tablet, pubblicato sull’applicazione Voice of America (VOA), e tramite i suoi account, disponibili sui principali social network. La sorella è stata costretta a rinnegarla pubblicamente alla televisione iraniana, e il fratello è stato arrestato nel 2019.

Anche il gesto semplice di togliersi l’hijab, famoso velo islamico, è un atto di protesta.

Donne e libertà

Indossare l’hijab è, infatti, un obbligo sancito dalla giurisprudenza islamica. Nell’assenza di libero arbitrio, le donne che osano disobbedire sono punite severamente, e in questa omologazione forzata, la disobbedienza civile è un reato. Nahid e Masih, entrambe dai capelli scuri, hanno la chioma riccia e un po’ ribelle. La loro somiglianza anche fisica, e questa loro libertà furtiva, contrasta in modo drammatico con le molte donne soffocate nella loro stessa identità di genere. Hanno incarcerato alcune anche per aver regalato dei fiori ad altre donne sulla metropolitana.

Molte, come atto di ribellione, vanno negli stadi truccate da uomini. Dalla campagna di MasihMy Stealthy Freedom – La mia libertà clandestina” contro l’obbligo dell’hijab, sono nate le proteste del “mercoledì bianco”. In questi giorni, le donne si levano il velo in pubblico, sfidando il pericolo di arresti e rappresaglie, oppure indossano una sciarpa bianca e si lasciano fotografare esponendosi pubblicamente.

Il ricordo delle vittime

Questo documentario trasmette il ricordo di molte vittime della dittatura islamica. I volti che appaiono nel film sono numerosi, e molti sono i nomi ricordati. Masoumeh Atai divorziò dal marito nel 2008; due anni dopo, l’ex suocero l’attaccò, sfigurandola con l’acido.

Raheleh Ahmadi è una delle donne volto della campagna contro il velo obbligatorio, condannata nel 2019 a 31 mesi di carcere. Sua figlia, Saba Kord Afshari, sta scontando una condanna a 15 anni per “aver promosso la corruzione e la prostituzione apparendo in pubblico senza velo”.

Rouhollah Zam è stato un attivista e giornalista iraniano, giustiziato per impiccagione il 12 dicembre 2020. Nel 2007 la stessa regista Nahid Persson fu arrestata e imprigionata dalle autorità iraniane, con l’accusa di aver infamato il paese con il dettagliato ritratto di due prostitute in Iran (“Prostitution behind the Veil”, 2004).

Riflessioni finali

A contrastare il racconto tragico di una generazione abusata, vi è il giardino della casa di Masih. Ricco di fiori e piante, una per ogni membro della sua famiglia, è l’unica traccia di vera vita. Insieme al giardino, a segnalare una nota di colore e di speranza, sono fiori bianchi fra i capelli di Masih e Nahid.

Da piccola Masih aveva paura del buio, e le dicevano che più avrebbe fissato l’oscurità più essa si sarebbe dissipata. Ora che lotta insieme agli esuli iraniani e che unisce la sua voce a molti che cercano una nuova libertà, il buio e l’orrore sono più reali. Il documentario di Nahid Persson rispecchia pienamente il presente, e lascia molti spunti di riflessione. Davanti al dramma del popolo iraniano, a cui il resto del mondo non ha ancora pienamente risposto, si può solo commuoversi, sperando che nuovi fiori di libertà possano presto sbocciare.

Voto: 7.6

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