Masterclass – Svoltasi il 6 dicembre, all’interno della caratteristica Aula del Tempio del Museo Nazionale del Cinema di Torino, la Masterclass è stata cornice alla premiazione del regista e sceneggiatore malese, naturalizzato taiwanese. Insignito del premio Stella della Mole 2022, ha parlato della sua carriera e della sua idea di Cinema.

Descrivere il mondo attraverso le immagini

Fra le figure più di rilievo della seconda ondata del Nuovo Cinema di Taiwan, Tsai Ming-liang esordì nei primi anni ’90. Da allora ha vinto numerosi premi cinematografici internazionali, fra cui il Leone d’oro della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1994, per il film “Vive l’amour”. Fin dagli esordi, la sua macchina da presa si è mossa alla ricerca di una profonda riflessione sul mondo e sulla vita. Tutto iniziò dal suo primo film, “Rebels of the Neon God” del 1992, e dall’improvvisa malattia del suo attore protagonista: Lee Kang-sheng.

Infatti, malato per diversi mesi e guarito poi senza trovare una spiegazione o una cura, divenne da allora specchio dello stesso regista. Interprete di tutti i suoi principali film, rappresenta il simbolo della filosofia di Tsai Ming-liang. Il corpo, e con esso la malattia, riflette la crudeltà e la fragilità del nostro essere uomini, specialmente nell’osservazione del processo d’invecchiamento. La vita, rappresentata dal corpo, viene pertanto analizzata ed esaminata dal regista, che ne ricerca la verità.

Come raccontare l’esistenza

Attraverso lo sguardo del regista, il Cinema in quanto forma artistica, diventa quasi una pratica terapeutica. Cercando, infatti, il significato della vita, e i misteri che si celano dietro alla corporeità dell’uomo, si indagano i lati in apparenza anche più normali del mondo e le azioni anche marginali dei personaggi. In questa analisi, la narrazione stessa passa gradualmente in secondo piano, prevalendo l’estetica della lentezza, e il tempo del film si dilata per abbracciare quello lineare e continuo della vita.

Nella ricerca di realismo, forte influenza sul regista arriva dal cinema europeo degli anni ’50-’60-’70, e principalmente quello francese. Infatti, lo stesso Jean-Pierre Léaud, fra i volti principali della Nouvelle Vague, a partire da “I 400 Colpi” (Francois Truffaut, 1959), diventa anche interprete dei suoi film, in “Che ora è laggiù?” (2001) e “Visage”

Come in quel cinema, per Tsai Ming-liang l’analisi della quotidianità è il cardine di tutto, e i suoi personaggi, spesso persi in un’esistenza all’insegna dell’incomunicabilità e della solitudine, possono essere salvati dal mondo e da se stessi solamente grazie al cinema, e il contatto fisico fra i corpi diventa la cura.

Momenti di distensione e simbologia

In questo cinema dunque fatto di silenzi, lunghe sequenze, e inquadrature dilatate, spesso momenti onirici musicali, stranianti e separati dal tessuto narrativo principale, vengono impiegati per creare situazioni di resistenza per lo spettatore. In questi momenti, come nel famoso finale del film “Goodbye, Dragon Inn” (2003), le tensioni accumulate durante la visione si distendono, e ci si può abbandonare alla poesia della musica, spesso lasciti di ricordi e memorie dall’infanzia del regista, e alla purezza dell’immagine.

Altro simbolo soventemente impiegato da Tsai Ming-liang, a rappresentare la corporeità dell’uomo e la vita stessa, è l’acqua. La pioggia fa spesso, infatti, da cornice ai suoi film, e ricorre anche per sottolineare attimi di commozione nelle scene lunghe, come accade durante “Stray Dogs” (2013), film vincitore del Gran premio della giuria a Venezia.Senza acqua non possiamo vivere, ed essa appare in diverse forme in tutti i film del regista, dove spesso i personaggi bevono, o sono ripresi in bagno.

Ricercando la libertà

Nel corso della sua carriera, il confine fra cinema e arte si è sempre più assottigliato.

Le pellicole di Tsai Ming-liang, spesso etichettate come documentario, sfuggono in realtà a ogni definizione. Nel loro essere infatti narrazioni sempre più libere da una trama reale o dalla tradizionale linearità, ultimamente hanno trovato spazio anche nelle gallerie d’arte, come forma artistica contemporanea.

A partire dai finali tipicamente lasciati aperti, il regista ha sempre ricercato una vera libertà d’azione, rendendo la cinepresa simile a un pennello. In questa sua autodeterminazione d’artista, ogni intento narrativo o documentaristico naturalmente scompare, lasciando spazio alla spiritualità.

Il suo lavoro più recente, “Walker”, è una serie di film iniziati nel 2012, e che conta attualmente nove film, con un’opera teatrale (“The Monk from Tang Dinasty”, 2014).

Lee Kang-sheng interpreta la figura realmente esistita del monaco del settimo secolo Chen Xuanzang, che, percorrendo interamente la Via della Seta in pellegrinaggio, raggiunse l’India dopo diciassette giorni. In questi film, insieme a Lee camminiamo attraverso il mondo, e nella cinematografia di Tsai Ming-liang non esistono più confini.

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