Recensione in anteprima – Dopo anni di tentativi e ripensamenti, arriva finalmente al cinema l’attesissimo biopic su Freddie Mercury e i suoi Queen. Un film inebriante e commovente invaso dalla musica del gruppo britannico tra i più importanti della storia della musica. Nelle sale italiane dal 29 novembre.
Perché proprio io?
Prima di cominciare a parlare di questo film è necessario fare una premessa. Devo ammetterlo: sono di parte. Forse sembra strano perché sono troppo giovane e quando dico che i Queen sono stati la colonna sonora della mia infanzia, qualcuno ogni tanto storce il naso. Dovete immaginarvi il 1991 e la mia mamma che si innamora perdutamente dell’ultimo singolo dei Queen, Innuendo.
Qualche mese dopo è successo quello che tutti sanno e un paio di anni dopo sono nata io. A casa e in macchina della mamma i dischi dei Queen andavano in continuazione, e io mi sono ritrovata a sapere a memoria i testi e gli assolo di chitarra, prima ancora di imparare l’inglese e soprattutto prima ancora di sviluppare un qualsiasi gusto o interesse musicale.
Inutile che vi dica come è andata a finire, però adesso che vi ho spiegato, posso dirlo che i Queen sono parte della mia infanzia? Posso dirlo che ascoltare Bohemian Rhapsody mi ricorda i pomeriggi dopo scuola a fare i compiti, mentre la mamma stirava? E posso dirlo, che quando sento dire la parola despacito gli unici versi che mi vengono in mente sono: Las palabras de amor/ Let me hear the words of love/ Despacito, mi amor/ Love me slow and gently?
Cuore di Fan
Detto questo, capirete anche perché non ero sicura di essere la persona giusta per scrivere una recensione obiettiva e distaccata. Ancora adesso non ne sono completamente convinta, ma credo che il fatto di essere una grande fan possa essere allo stesso tempo un motivo in più per farlo. Dal “Perché proprio io?” Al “e chi sennò?” è davvero un attimo. Perché sono i fan che hanno aspettato tanti anni per vedere questo progetto prendere vita, con un misto di ansia e impazienza. Sono i fan che hanno seguito con il fiato sospeso la sostituzione di attori e registi. E sono i fan che non perdonerebbero alcun errore.
Insomma, in sala si entra emozionati, ma anche un po’ in apprensione, ti parte un flusso di coscienza che: finché non l’ho visto non sono tranquilla, chissà che cosa hanno combinato, ma no, non può essere una porcheria, ci sono Brian e Roger alla produzione. Le luci si spengono e la fanfara della Twenty Century Fox risuona dalla chitarra di Brian May. Come per tranquillizzare tutti. E infatti le mie preoccupazioni si mitigano un pochino, solo con questo.
E la voce?
Fin dal primo annuncio, la maggiore preoccupazione di tutti è stata la voce cantata di Freddie. Impossibile trovare l’attore ideale e pretendere la corrispondenza perfetta nell’aspetto fisico, nei movimenti e anche nel timbro e nelle capacità vocali. Il timore generale era quello di un’imitazione che non rendesse giustizia o peggio, che ridicolizzasse tutto.
Il piano architettato da regista e compari è un esperimento che Rami Malek spiega a vari impazienti intervistatori: quella che sentiremo in sala sarà una fusione di tre voci (la sua, quella del vero Freddie e quella di Marc Martel, un cantante canadese famoso per la somiglianza con il frontman dei Queen), che si alternano e si mixano nel corso della pellicola. L’obiettivo principale rimane comunque quello di far sentire più Freddie possibile.
The Show Must Go On
Il film ripercorre la storia dei Queen dalla nascita del gruppo, fino allo storico concerto che li ha consacrati nell’Olimpo del rock degli anni 80, in quello stadio che per loro è diventato un santuario. A firmare ufficialmente il biopic è Bryan Singer, anche se a poche settimane dalla fine della lavorazione è stato sostituito da Dexter Fletcher.
Di questo la pellicola non risente in alcun modo, il cambio non si avverte mai. Il montaggio è fluido, il film è ben scritto e ben strutturato, e il fatto che le scene di live e concerti prevalgano su quelle di vita privata del cantante è perfettamente in armonia con il concetto di film tributo.
“Siamo quattro emarginati male assortiti che suonano per altri emarginati”
Uno dei principali fiori all’occhiello del film è il cast, che sfoggia una corrispondenza con gli originali davvero sbalorditiva. Il Freddie di Rami Malek è straordinariamente somigliante, nel trucco, ma anche nella postura e nei movimenti, nelle espressioni, nel modo di parlare. Ho letto un commento sul web che diceva che Gwilym Lee assomiglia a Brian May più di quanto Brian May assomigli a Brian May.
I colleghi sostengono che la prima cosa che Ben Hardy faceva, appena arrivava sul set era sistemare meticolosamente la batteria: esattamente la stessa cosa che faceva lo stesso Roger Taylor; e poi c’è Joseph Mazzello, che John Deacon non l’ha potuto incontrare (perché ritirato dalla vita pubblica, poco dopo la morte di Freddie Mercury), ma ne ha colto perfettamente l’essenza, anche attraverso i più piccoli particolari, come quel sorriso largo e schiacciato, gli occhi sempre un po’ strizzati, i bizzarri balletti sul palco e la sottile ironia che hanno caratterizzato il membro più schivo e riservato dei Queen.
C’è una preparazione minuziosa, uno studio preciso dei movimenti e questo si evince soprattutto nelle scene delle esibizioni (che sono tante) dove si vede che ognuno sa perfettamente cosa fare e come farlo.
A completare il quadro di un casting più che azzeccato c’è una piccola chicca: un quasi irriconoscibile Mike Myers, che interpreta Ray Foster, il primo produttore discografico dei Queen, con un chiaro e irriverente richiamo al suo “Fusi di testa” (Wayne’s World).
Le critiche
È vero, il gruppo non è nato proprio così; sia Roger Taylor sia Bryan May avevano già inciso degli album da solisti prima di Freddie; la malattia gli è stata diagnosticata dopo e la storia del Live Aid era un po’ diversa. D’accordo, non è vero che il Live Aid è stata la prima occasione in cui i Queen hanno suonato insieme dopo sei anni, era uscito un album nel febbraio dell’84 con tanto di tour quella stessa estate.
Quello che si è voluto fare nel film è stato alzare l’asticella del “panicometro”, generando una situazione più tensiva anche per qualcuno che può essere abituato a suonare davanti a milioni di persone. Ancora una volta: la diagnosi della malattia è arrivata due anni dopo il Live Aid e non pochi mesi prima, come nel film, ma anche in questo caso l’intento era quello di consacrare ulteriormente quei gloriosi venti minuti. È un po’ romanzato? Si. Questo crea qualche problema di corso? Assolutamente no.
Il Live Aid è stato epico per davvero. C’è chi dice che quei venti minuti siano stati la salvezza della band, che prima era davvero sull’orlo della crisi. Non stiamo parlando di un documentario: è permesso, anzi è necessario prendere delle licenze per poter confezionare un film di due ore.
Questo film era così atteso perché ne avevamo bisogno, ci serviva davvero qualcosa che ci aiutasse a ricordare, a celebrare e a piangere un’anima così sfaccettata, così complessa da non avere avuto mai abbastanza spazio nella realtà che la circondava. E che infondo, un tributo così, se lo meritava tutto.
Voto: 8.2