Recensione in anteprima – Venezia 75 – In concorso – La nuova opera di Shinya Tsukamoto è un piccolo film di samurai in cui l’azione e l’avventura sono subordinate alla riflessione sull’atto di uccidere. Una pellicola secca e spiazzante, dal forte impatto visivo ed emotivo. 

La storia

Nel corso della metà del XIX secolo, dopo circa 250 anni di pace, in Giappone i guerrieri samurai si sono impoveriti. Di conseguenza, molti lasciano i loro padroni per diventare dei ronin erranti. Mokunoshin Tsuzuki è uno di questi samurai. Per conservare la sua abilità nel maneggiare la spada, Mokunoshin si allena quotidianamente con Ichisuke, il figlio di un contadino. La sorella di Ichisuke, Yu, li guarda esercitarsi con una leggera disapprovazione, sebbene tra lei e Mokunoshin si avverta un’attrazione non dichiarata. Se da un lato la vita agricola è tranquilla dall’altro il Giappone vive un enorme subbuglio.

La Marina militare statunitense ha inviato il Commodoro Perry nel paese per stimolare il commercio con gli Stati Uniti, alimentando così i disordini civili. Yu è preoccupata perché sente che presto Mokunoshin partirà per combattere e, di conseguenza, morire nell’imminente guerra civile. Un giorno i tre incontrano due samurai in duello. Il vincitore è Jirozaemon Sawamura, un abile ronin dai modi gentili. Sawamura resta nel villaggio per cercare altri potenziali guerrieri, quando arriva un gruppo di ronin fuorilegge. Gli abitanti del villaggio hanno sentito voci terribili sul capo dei banditi, Sezaemon Genda. Quando l’irruento Ichisuke sfida i fuorilegge, la direzione delle loro vite cambia drasticamente.

Il ritratto di un uomo bloccato

Regista, sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore: Shinya Tsukamoto è decisamente un artista a trecentosessanta gradi, capace di curare da solo ogni aspetto dei suoi film. Non aveva però mai girato un racconto di cappa e spada come è “Killing”, che però, a parte lo spunto di base, delle caratteristiche tradizionali dei samurai movie ha ben poco: il protagonista della storia è infatti un guerriero incapace di uccidere.

Tsukamoto ha dichiarato che l’immagine da cui è partito per sviluppare quest’opera era quella di un giovane ronin che fissa con ardore la propria spada, ed è proprio questo il perno tematico del film: lo scarto dall’addestramento alla guerra, la consapevolezza che l’oggetto che si stringe tra le mani diventerà uno strumento di morte.

Mokunoshin non riesce ad accettare questo passaggio, presentandosi dunque come una contraddizione vivente: un combattente incapace di essere ciò che dovrebbe. “Killing” non è quindi un racconto di avventura e di eroismo, come si potrebbe pensare leggendo la trama, quanto piuttosto il ritratto di uomo bloccato (anche sessualmente), che deve trovare dentro di sé la forza per uscire da questa impasse, cosa che l’incontro con l’abilissimo spadaccino Sawamura, interpretato da Tsukamoto stesso, lo obbligherà a fare.

Un urlo contro la violenza

La violenza è confinata a poche, isolate scene di combattimento, che si fanno però ricordare per la loro sferzante brutalità: la regia di Tsukamoto, nervosa e dinamica ai limiti della caoticità, privilegia le inquadrature a mano, i primi piani e i dettagli, e rimane continuamente addosso ai corpi e alle armi dei personaggi, senza lesinare squartamenti e amputazioni (memorabile in questo senso lo scontro nella caverna).

Il risultato è un film piccolo, per durata (solo ottanta minuti) e quantità di personaggi (di fatto solo quattro, se si escludono le comparse), essenziale nella forma ma dal forte impatto visivo ed emotivo: un urlo contro la violenza, come lo ha definito lo stesso Tsukamoto, che lo considera l’espressione della sua inquietudine relativa alla situazione politica attuale, perché “nella spada di Mokunoshin ci sono tutte le armi da fuoco del mondo”. Cinema semplice, dunque, ma con molto da dire.

Voto: 6,5

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