Recensione in anteprima – Primo lungometraggio di Andy Serkis, il Gollum digitale de “Il Signore degli anelli”. Il debutto alla regia non è dei più convincenti anche se il film, volutamente lento, può essere considerato un bel punto di partenza. Al cinema dal 16 novembre.

Robin Cavendish ha tutto dalla vita: è bello, aitante e fascinoso. Tanto da conquistare l’apparentemente inaccessibile Diana. Mentre la coppia di sposi nel dicembre 1958 si trova in Africa Robin contrae una forma di poliomielite che lo immobilizza in un letto e lo lega a un respiratore con una diagnosi che non gli lascia molto tempo da vivere. Diana, contro il parere della medicina ufficiale, lo porta a casa offrendogli delle opzioni terapeutiche mai tentate prima. Jonathan Cavendish non è solo il figlio di Robin nato poco dopo che il padre era stato colpito dalla malattia ma è anche il produttore del film. Questo fa sì che l’intera operazione assuma una dimensione del tutto speciale.

Conosciamo tutti Andy Serkis per aver “prestato” il suo corpo a una serie di sensori cuciti su una speciale tuta così da portare sul grande schermo, digitalmente, personaggi come l’indimenticato Gollum de “Il Signore degli anelli”, Cesare dei prequel de “Il pianeta delle scimmie” nonché il King Kong di Peter Jackson. Andy Serkis, dopo un apprendistato come direttore della seconda unità ne “Lo Hobbit”, qui debutta con il suo primo lungometraggio.

Un debutto che, personalmente non convince del tutto. La regia è abbastanza classica, molto british nello stile e nella presentazione della storia. Si coniuga bene con i protagonisti della vicenda ma non appassiona più di tanto, non trasmette allo spettatore quella condivisione di quanto provano i protagonisti della vicenda.

Consapevole di poter scivolare nel sentimentalismo più smielato Andy Serkis, con la collaborazione dello sceneggiatore William Nicholson, cerca di inserire ilarità e humor prettamente inglese in una vicenda che, dopo pochi minuti precipita nel dramma e nella delicata condizione fisica di Robin Cavendish (una buona prova di Andrew Garfield).

“Ogni tuo respiro”, “Breathe” in inglese, cioè semplicemente “respiro” è un film diviso in tre parti volutamente non equilibrate tra loro. Una prima, veloce, dove la gioia dell’incontro tra Robin e Diana avviene in modo estremamente giocoso e divertito. Una seconda parte dedicata alla malattia, al rifiuto della condizione di invalido da parte di Robin. Una terza che tratta la malattia come uno spunto pratico per aiutare il resto dell’umanità affetta da quella patologia migliorandone la vivibilità.

La storia di Robin Cavendish è una storia vera e viene portata sul grande schermo dal figlio Jonathan, produttore del film. Si nota che il regista abbia voluto portare a galla soprattutto quest’ultima parte della vicenda di Robin, quella dedicata a tutta l’ingegneria e a tutte le idee che son state poi introdotte per migliorare le condizioni di vita dei pazienti affetti da polio o malattie simili.

L’intero film sembra sempre avere il timore di scadere nel banale e, per questo, tutte le due ore sembrano anche troppe per una pellicola che, preoccupata di non essere troppo dolce, risulta senza zucchero, senza sapore. Inconsistente e abbastanza piatto “Ogni tuo respiro” ha il pregio di esaltare, ancora una volta la bravura di Andrew Garfield e, soprattutto di Claire Foy, sempre a suo agio nei panni di una donna inglese degli anni ’50-’60 del secolo scorso.

E’ anche abbastanza facile ricollegare, per situazione ed argomenti, questo film a “Io prima di te”, ancora un film inglese con protagonisti Emilia Clarke e Sam Claflin. Anche in quel caso si trattava di una prima regia nel lungometraggio; il debutto di Thea Sharrock. Questo “Ogni tuo respiro” infatti, molto probabilmente piacerà allo stesso pubblico. E’ sicuramente un buon punto di partenza per Andy Serkis ma, si poteva anche osare di più, la paura di non fare bene ha prevalso e ha intaccato un po’ tutta l’opera.

Voto: 5,5

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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