Recensione – Francesca Archibugi, dopo Il nome del figlio, torna dietro la cinepresa con la libera trasposizione cinematografica del celebre romanzo di Michele Serra, raccontando la solitudine di un padre che si sente chiuso fuori dalla vita del figlio. Una storia intima, non un racconto generazionale.

Giorgio Selva (Claudio Bisio) è una persona brillante e di successo: conduce un programma tv molto seguito, “Lettere all’Italia”, in cui intervista personalità del panorama culturale e politico, vive a Milano in una bella casa, tutti lo conoscono e lo riconoscono. Avrebbe una vita perfetta se non fosse per il suo più grande tormento, il figlio Tito (Gaddo Bacchini), di cui ormai molti anni prima ha ottenuto l’affido condiviso con la sua ex moglie (Sandra Ceccarelli), che non vede da anni.

Giorgio è, infatti, in privato, soprattutto un padre pieno di sensi di colpa, insicuro e fragile che si sente incompreso e probabilmente non amato dal figlio. Non sa proprio come rapportarsi a lui, come instaurare un dialogo. Trova davanti a sé solo un muro invalicabile.

«Forse pretendo troppo poco da te»

gli dice in una battuta del film. E in effetti probabilmente ha ragione, dato che Giorgio farebbe e fa di tutto per un figlio che ama più di ogni altra cosa al mondo. Tito, infatti, ha a disposizione sempre casa – perennemente invasa dalla “banda dei froci” (suoi amici e compagni di scuola) – ha dato una copia delle chiavi di casa al suo amico Lombo che entra ed esce quando gli pare, utilizza liberamente la carta di credito paterna, non risponde mai a telefono quando Giorgio lo chiama e né gli dà notizia dei suoi spostamenti, degli orari di rientro o dei giorni in cui dorme da lui o dalla madre.

Insomma, un gran caos, che rispecchia il mondo interiore di Tito: un diciassettenne in crescita, confuso tra le regole personali (quelle del cuore), le regole interne (quelle della famiglia che si è scelto – il gruppo di amici-), quelle esterne di due case differenti e, soprattutto, quelle di affetti che non dialogano mai (padre/madre, figlio/padre).

Due mondi, quelli di padre e figlio, completamente diversi e incapaci di comprendersi, ma soprattutto uno scontro di solitudini – e di vuoto – che si cercano ma non riescono a incastrarsi.

L’unico con cui entrambi riescono ad avere un dialogo, sano e costruttivo, è Pinin (Cochi Ponzoni) – il saggio nonno di Tito e suocero di Giorgio – punto di riferimento, che fa da mediatore familiare.

Prodotto da Indiana con Rai Cinema e Lucky Red, “Gli sdraiati” è l’ultimo lavoro di Francesca Archibugi, che ne firma regia e la sceneggiatura (questa insieme a Francesco Piccolo), per una libera trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo. Il libro di Michele Serra, già portato a teatro da Claudio Bisio (di cui l’autore è molto amico), nel film – per esigenze di racconto cinematografico – si amplia e si approfondiscono aspetti e personaggi che non vi erano nell’opera originaria, sempre però partendo dal senso di colpa e di inadeguatezza del protagonista, nucleo narrativo.

In una Milano veloce, efficiente e luminosa, i rapporti umani e affettivi zoppicano, incespicano. Le relazioni, le confessioni di una serata tra amici, quei pochi e rari momenti di intesa tra padre e figlio hanno, invece, come sfondo le notti, gli interni di una casa, luci soffuse, i non detti, gli intensi e gentili sguardi in camera dei protagonisti.

Francesca Archibugi riesce a riportare con delicatezza sullo schermo il punto di vista di un padre. Si focalizza – mai brutalmente ma sempre con gentilezza – sulla solitudine e sulla frustrazione di chi è stato tagliato fuori dalla vita del proprio enigmatico figlio. La regista, così, con il tono della commedia, che ha però (s)punti drammatici, riesce a far sorridere lo spettatore su temi seri e attuali, senza voler far diventare il suo film un romanzo generazionale. È la storia di un padre e di un figlio, Giorgio e Tito, utilizzando le sue parole

“è il racconto di due pezzi unici, di un rapporto estremo fra un padre e un figlio: non ci sono intenti sociologici, questi eventualmente arrivano come effetto collaterale”.

La narrazione scorre senza difficoltà, merito dei protagonisti sullo schermo: Claudio Bisio, perfetto in un ruolo non comico, Cochi Ponzoni, nei panni di un nonno premuroso, Gigio Alberti, interpreta l’amico e avvocato di Giorgio, Antonia Truppo, una vecchia storia di Giorgio, Donatella Finocchiaro, una grintosa primo Presidente del Consiglio donna, e poi ancora, Federica Fracassi, Ilaria Brusadelli, Barbara Ronchi.

Ciò che conta davvero alla fine, però, è ciò che ci spinge gli uni verso gli altri, quello che ci unisce e non quello che ci divide, il bisogno di condividere, come il desiderio di Giorgio di portare il figlio in montagna per capire “che sei diventato grande e io ora posso davvero invecchiare”.

Il riuscire a fare insieme la famosa camminata – climax del dialogo finalmente riaperto – permette a Tito un’intimità e un’attenzione al padre tali da riuscire a chiedergli (e a chiedersi) in che cosa potrebbe aver sbagliato la madre, invece di soffermarsi solo sugli errori paterni. Giorgio è molto sorpreso dalla domanda, ci riflette e risponde: «Bè, avrebbe potuto perdonarmi».

Insieme alla redenzione – non a caso la colonna sonora del film è “Redemption Song” di Bob Marley – il perdono è uno dei temi del film. Insieme all’incapacità di volersi bene, pur volendosene moltissimo.

Un perdersi per ri-trovarsi, sempre.

Voto: 7

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