Recensione in anteprima – Nelle sale dal 12 ottobre, Tomas Alfredson firma l’attesissimo adattamento cinematografico del settimo capitolo della saga crime scritta da Jo Nesbø. Michael Fassbender, nei panni del commissario alcolizzato Harry Hole, è alle prese con un serial killer che mutila cadaveri di donne e si firma con inquietanti pupazzi di neve. Un thriller violento e glaciale, perfettamente d’atmosfera, che però sembra arrancare nei tentativi di analisi psicologica e nella risoluzione del caso, forse costretta in tempi cinematografici mal calibrati.

In una Oslo inospitale a ogni prima nevicata compaiono cadaveri di donne decapitate e mutilate. Quello che sembra un macabro rituale si ripete a distanza di anni con le stesse modalità, colpendo solitamente madri con figli nati da una relazione extraconiugale e utilizzando un innocuo pupazzo di neve come “spia” per segnalare le case delle vittime designate. Proprio con uno snowman disegnato, il serial killer si firma su un bigliettino fatto recapitare al tormentato commissario Harry Hole (Michael Fassbender), solitario e alcolizzato, con problemi relazionali nel privato e sul lavoro. Sarà lui, con l’aiuto dell’agente Katrine Bratt (Rebecca Ferguson) a individuare il fil rouge che unisce i casi di diverse donne scomparse nell’arco di vent’anni e del suicidio sospetto del poliziotto Gert Rafto (Val Kilmer), sulle tracce dell’assassino anni prima. Nel corso delle indagini Hole dovrà anche fare i conti con personaggi ambigui e questioni personali irrisolte.

Dopo l’horror “Lasciami entrare” e la spy story all stars de “La talpa”, terza trasposizione cinematografica di un romanzo per Tomas Alfredson (originariamente pensata per Martin Scorsese, poi diventato produttore esecutivo del film) e nuova collaborazione con lo sceneggiatore Peter Straughan che, insieme all’iraniano Hossein Amini, adatta una delle indagini della serie culto del norvegese Jo Nesbø. L’ambientazione naturale della vicenda (Oslo, Bergen, Drammen) facilita regia e sceneggiatura nell’impresa di ricreare un’atmosfera algida, quasi imperturbabile, scossa solo dall’efferatezza degli omicidi che Alfredson non disdegna di mostrare aggiungendo tocchi splatter alla vicenda, e che colorano –letteralmente- una scena candida e ovattata. Gli stessi personaggi vivono in un costante ‘non detto’ in cui (quasi) niente è come sembra, interiorizzando emozioni e omettendo reazioni, in un sistema di relazioni in cui la felicità sembra poter solo appartenere al passato. Così Michael Fassbender, non nuovo a incarnare personaggi sofferti, con un’interpretazione trattenuta presta il volto a un poliziotto perdente e problematico, desideroso di dar sfogo a un sincero senso paterno ma ostacolato – per sua stessa ammissione – dall’insicurezza, dall’egoismo e dalle dipendenze. Sotto la “coltre” del thriller, ne “L’uomo di neve” si nasconde sottotraccia un film sulla paternità, la maternità e, più in generale, sui rapporti e sul senso della famiglia: quello distorto che abita la mente disturbata di un serial killer, quello in cerca di vendetta di un’orfana, quello inespresso o inesprimibile di chi vorrebbe ma fatica a superare i propri limiti.

Il film, che non segue – volutamente – la storia del libro ma le dà un taglio differente, si trova così a percorrere più strade contemporaneamente, procedendo sulla corsia, chiaramente preferenziale, del thriller ma inframmezzando la suspense con personaggi- meteora (si veda uno sprecato J.K. Simmons) che, appartenenti all’impalcatura narrativa del libro, non trovano una piena ragion d’essere in quella della pellicola se non fungere da specchietti per le allodole. Così anche le incursioni nel privato del commissario e della collega Brett, per quanto irrinunciabili allo svolgimento della vicenda, sembrano non integrarsi completamente nella tessitura de “L’uomo di neve”, finendo per far risultare mal calibrati anche i momenti thriller nella struttura, di per sé limitata, della trasposizione cinematografica.

Alla luce di ciò, appare allora piuttosto calzante la battuta che Hole/Fassbender rivolge all’agente Brett/Ferguson in un momento di particolare tensione in cui, sull’onda dell’emozione, la giovane collega crede di aver risolto il caso chiudendo i conti col proprio passato:

“Non puoi pretendere che tutti i pezzi vadano sempre al loro posto”.

Voto: 5,5

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