Recensione in anteprima – Venezia 74 – In concorso – E’ un flusso umano come da titolo quello descritto attraverso il documentario dell’attivista per i diritti umani e regista Ai Weiwei. Un’opera troppo dispersiva che soffre del protagonismo del regista ma che deve essere vista.

Una fiumana di gente – oltre 65 milioni di individui – si muove in massa attraverso la terra e il mare, un esodo collettivo di proporzioni bibliche paragonabile (nella memoria recente) solo alla diaspora avvenuta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, che allontana dalle loro radici e culture di origine intere popolazioni in fuga da conflitti, carestie, calamità naturali, povertà e persecuzioni. Questo racconta Human Flow (“flusso umano”, appunto) attraverso la testimonianza diretta di Ai Weiwei, l’artista cinese attivista per i diritti umani e ambasciatore di Amnesty International, che applica la propria sensibilità pittorica ai grandi scenari del presente.

Portare un documentario in concorso, a Venezia, non è mai semplice, anzi, è una delle imprese più difficili. Nell’edizione numero 73 abbiamo avuto Terrence Malick con il suo “Voyage of time”  con riscontri contrastanti, quest’anno l’artista e attivista cinese Ai Weiwei porta al Lido il suo “Human Flow” con  i medesimi dubbi dei più controbilanciati dalle buone sensazioni di tanti altri.

“Human Flow” inizia con una barca in mezzo al mare, in balia delle onde, questa barca raggiunge un attracco dove i migranti visibilmente assiepati in ogni ordine di posto vengono tratti in salvo dagli aiuti umanitari. Musica di sottofondo e dati statistici in primo piano con i rumori della natura a scandire queste prime scene senza soluzione di continuità.

Questo stile a tratti didascalico, per altri tratti invece molto invasivo dettano il ritmo dell’intero documentario che oscilla tra momenti di visibile bellezza fotografica a momenti più propriamente toccanti con le lacrime e le richieste legittime dei migranti.

Sono 23 i paesi che il regista Ai Weiwei gira per diversi mesi incrociando i flussi migratori dall’Africa all’Europa, all’interno della stessa Europa, in Asia, in Medioriente e persino al confine tra Messico e Usa. Un impegno che doveva essere veicolato con maggiore attenzione e, soprattutto, con maggior scelta sulle informazioni da dare e sulle quali focalizzarsi  per non incorrere in una evidente sovrabbondanza di dati che rischiano di perdersi nonostante il film sia della durata di ben 140 minuti.

Le statistiche riportate nel documentario sono allarmanti, descrivono un fenomeno, quello delle migrazioni che è ormai esploso e che i paesi cosiddetti civili faticano a gestire trovando la chiave umanitaria, sociale e legale per poter accogliere in condizioni accettabili un così gran numero di persone che fuggono dal loro paese d’origine per le più terribili e varie ragioni.

Con le interviste ai migranti Ai Weiwei focalizza bene l’attenzione sulle motivazioni che spingono queste persone a fare quel lungo e pericoloso viaggio, sui loro stati d’animo e sulle loro aspettative. Ci si sofferma anche sui morti, sui troppi morti in mare, sulle troppe barriere che gli stati europei e non solo hanno innalzato anche nella stessa Unione Europea.

All’interno del film ci sono tre momenti, anzi in realtà quattro, nei quali è presente la circolarità degli eventi. Una circolarità tanto cara al mondo cinese e che viene espressa con la scena del bambino che gioca correndo in cerchio, dal cavallo che viene condotto a passo d’uomo descrivendo un cerchio e la tigre che, in gabbia, continua, con un’inquadratura dall’alto, a disegnare un cerchio quasi perfetto. La circolarità poi torna in un’immagine dall’alto del drone che viene spesso utilizzato per registrare panoramiche dall’alto dei diversi campi profughi più o meno regolari descrivendone così, grazie a un’inquadratura, lo stato in cui versa.

Ai Weiwei, attivista prima che regista, non manca nel film e, purtroppo fa sentire la sua presenza troppo spesso. Questa scelta guasta il documentario, contaminandolo di una vena anche troppo giocosa o troppo egocentrica.

“Human Flow” ha il pregio di dare un quadro completo ma generale della situazione dei flussi migratori con però troppi dati, senza approfondire una situazione e senza lasciare spazio alle diverse motivazioni dei diversi flussi migratori. Un’occasione sprecata ma un documentario che deve essere visto.

Voto: 5,8

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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