Recensione in anteprima – Venezia 74 – In concorso – Secondo lungometraggio da per Vivian Qu, unica donna regista in concorso alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia 2017. Un film che vuole denunciare alcuni mali della Cina ma che purtroppo affronta lo svolgersi della narrazione in modo ingenuo e poco raccordato.

In una piccola città balneare, due studentesse di 12 anni vengono abusate in un motel da un uomo di mezza età. Mia, adolescente che quella notte lavorava alla reception, è l’unica testimone dell’aggressione. Per paura di perdere il suo lavoro, non dice niente. Nel frattempo, Wen, una delle vittime, scopre che i suoi guai sono appena iniziati. Intrappolate in un mondo che non offre loro adeguata sicurezza, Mia e Wen dovranno trovare da sole la propria via d’uscita in un paese che sembra tutelare l’aggressore e non le vittime.

Nel suo secondo lungometraggio la regista cinese Vivian Qu presenta al pubblico una Cina abbastanza inedita: quella balneare, quella che si prepara alla stagione estiva dei turisti. E’ anche una Cina che ha tutti i mali e i problemi che si possono riscontrare anche negli altri paesi. La violenza sessuale nei confronti delle due dodicenni avviene senza immagini dirette ma stando fuori dalla porta come a significare che molti, in Cina come altrove, sanno di certe cose ma guardano dall’esterno come se il problema non ci fosse.

Pedofilia, corruzione nella società civile, criminalità dilagante, prostituzione minorile, immigrazione clandestina, questi i temi che via via si presentano all’interno del film. Tutti trattati con poco approfondimento e che meriterebbero qualcosa di più rispetto alla “lezioncina” appiccicata tra una scena e l’altra. Questo il principale difetto del film, aver presentato diversi e importanti problemi e non riuscire a svilupparli adeguatamente con passaggi a volte riusciti, altre, e spesso, abbastanza ingenui e quantomeno illogici o inverosimilmente tardivi e superficiali.

La regia non denota grandi particolarità e si fa, anch’essa, allineata al “compitino”. Se, da una parte lascia parlare i fatti, dall’altra non riesce a coprire buchi di sceneggiatura che inevitabilmente si presentano. La buona interpretazione delle attrici giovani é un punto di forza dell’intero film che denota un buon lavoro effettuato nella loro direzione e nell’evidenziare non tanto l’urlante sgomento ma la paura, la vergogna, l’impossibilità a comunicare il fatto.

La Cina appare come un paese governato non dalle leggi ma dai soldi, dalla corruzione più spinta e che coinvolge anche famiglie. Si da’ l’impressione di una tutela maggiore per gli aggressori rispetto alla salvaguardia dei diritti delle vittime. L’iniziativa lodevole dei singoli che amano il proprio lavoro é l’unico barlume di speranza in una Cina che ha anch’essa delle periferie che sono periferie lontane di altre caotiche città. Una sorta di Far West dove é permesso quasi tutto, basta pagare, la pistola moderna che sconfigge persino un’altra arma potentissima: l’informazione.

“Angels wear white” é un film di denuncia, non pienamente riuscito e che lascia diversi interrogativi ai cinesi e al mondo intero. I problemi son ancor più gravi di quanto si possa anche solo immaginare.

Voto: 6

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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