Recensione – Venezia 72 (2015) – In concorso – Marco Bellocchio torna alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con un nuovo film. Film girato nella sua Bobbio, con, tra gli altri, alcuni suoi famigliari come attori e attraverso una produzione indipendente. Il regista lascia libero sfogo alle sue due idee principali costruendo un film a tratti simbolico, a tratti enigmatico e fortemente ancorato a un’impostazione classica malgrado la spinta innovativa e fantasiosa.

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Bobbio, ieri. Federico, uomo d’arme a cavallo, bussa alla porta di un convento per riabilitare la memoria di Fabrizio, il fratello sacerdote morto suicida. Del gesto estremo è accusata Benedetta, una giovane suora che secondo l’Inquisizione lo avrebbe amato, sedotto e condotto alla follia. Ma la vendetta di Federico volge presto in desiderio. Refrattaria al pentimento e agita dal piacere, Benedetta è condannata alla prigione perpetua e murata viva in una cella del convento. ‘Graziata’ trent’anni dopo da Federico, diventato cardinale, Benedetta incrocerà di nuovo il suo sguardo, piombandolo a terra. Bobbio, oggi. Federico, sedicente ispettore del Ministero, bussa al medesimo convento. Lo accompagna un miliardario russo che vorrebbe acquistare l’antico complesso. Apparentemente abbandonato ai capricci delle stagioni e all’incuria del comune, il convento è abitato da un enigmatico conte, che ha abbandonato i vivi per i redivivi. Coniuge ‘estinto’ di una vedova (in)consolabile, il conte lascia la sua cella di notte e attraversa il paese interrogando amici e nemici sullo ‘stato delle cose’. Cose che cambiano sotto la spinta del ‘nuovo’.

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Per la prima volta, dopo diverse visioni, anche al Palabiennale si è udito qualche fischio a fine proiezione. Certo, questo vuol dire tutto come non vuol dir niente e sicuramente i fischi, il nuovo film di Bellocchio, non li merita. Il film del regista romano d’adozione ma emiliano di nascita divide critica e pubblico. Il pubblico soprattutto rimane spiazziato. Alla fine della proiezione alcuni ragazzi davanti a noi sono stati raggiunti dal fondo da degli amici dicendo loro: “voi qui davanti avete capito vero? perché dietro non si è capito nulla”. Non c’era ovviamente nessun problema tecnico ma il film ha degli elementi enigmatici, criptici e di non immediata ricezione.

Lasciando libero sfogo alla sua fantasia e al suo “fare cinema raccontando storie” Marco Bellocchio si fa aiutare sia dai ragazzi, come li chiama lui, del suo laboratorio “FareCinema” sia da due idee che erano sorte tempi addietro. Infatti il film è costituito, come si evince dalla trama sopra riportata, da due distinti episodi, con un leggero sbilanciamento di durata verso il primo, quello ambientato nel 1600. Seppur diversissimi in quasi tutti gli aspetti, i due episodi sembrano seguire uno stesso filo conduttore. Molto più esplicito nell’episodio del prete e della suora rispetto a quanto non sia solo accennato e più criptico nell’episodio ambientato ai giorni nostri.

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Nel primo episodio, che ricorda vagamente un prodotto similtelevisivo a metà strada tra “Il racconto dei racconti” e “Il nome della Rosa”, ritornano gli argomenti cari al regista: la Chiesa, le sue regole, la donna fatale e seduttrice di un uomo debole e incline alle tentazioni sopra tutti. Il clero imprigionato figurativamente nelle sue regole, prove, pentimenti e confessioni si contrappone alla prigione ben più materiale e concreta alla quale viene costretta Benedetta per una colpa certa ma mai soggetta a pentimento. Nel secondo episodio il carcere fisico nel quale il conte si autorinchiude è la sua stessa casa per poter essere né vivo né morto ma sempre pronto a esercitare le sue attività e beneficiare di quella sua posizione di membro di una massoneria istituita da decenni a Bobbio. E’ però rinchiuso in un’altra gabbia: quella della gioventù ormai passata e l’impossibilità, malgrado tutte le precauzioni, di confrontarsi e farsi vincere dalla modernità. Il film crea un singolare inno, o meglio grido, alla libertà. Ma realmente dove si trova questa libertà? Nel controllato o nel controllore della scena? La risposta rimane vaga anche se nel finale viene risolta in maniera ancora una volta enigmatica, cioè lasciando altre domande.

La libertà è anche la struttura di direzione delle scene che utilizza Bellocchio. I due episodi si mal raccordano e questo sembra proprio voluto o almeno non è stato mai ricercato. Un episodio vira molto di più verso il fantasy mentre l’altro fa rotta verso la commedia ironica quasi fosse un compendio in tono minore di “Youth” di Sorrentino. Malgrado una recitazione non eccelsa (continuare a far dire ai personaggi “Elena (nella realtà la figlia di Bellocchio) è bella e brava” risulta anche ruffiano, e non la fa automaticamente diventare brava), una fotografia molte volte troppo buia, scene che spariscono nel nulla con la bellissima “Nothing else matters” dei Metallica in sottofondo che si interrompe bruscamente senza motivo, il film si lascia vedere, suscita interesse anche per la presenza di un paio di scene  per episodio, qui ricordiamo forse quella più significativa ai fini dell’intero film: la chiacchierata del conte dal dentista.

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In fin dei conti Bellocchio aveva detto nel 2012 che non sarebbe tornato più al Lido. L’ha fatto per i ragazzi del suo laboratorio affinché si confrontassero con altri film in concorso a Venezia. Dubito possa avere chance di vittoria ma sarebbe un bel colpo a 50 anni dal suo primo film presentato alla mostra: “I pugni in tasca”.

Voto: 6,2

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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