Recensione in anteprima – Torna in sala il 9 novembre il regista di ‘Perfetti sconosciuti’ con un altro film corale, tratto dalla serie americana ‘The Booth at the End’. Riflessione estrema e attuale sulla morale e sul superamento dei limiti che, tuttavia, risente di una resa non incisiva e poco coinvolgente per lo spettatore.

Un Uomo senza nome (Valerio Mastandrea) seduto giorno e notte a un tavolo scrive e riscrive le pagine già fitte di una grossa agenda; un ristorante (in un certo senso, anch’esso quasi senza nome) che dà il titolo al film; nove personaggi che a quel tavolo si siedono per chiedere qualcosa, per veder realizzato un desiderio ogni volta in cambio di compiti da svolgere, solitamente legati a violenza e morte. Qualcuno porta a termine l’incarico richiesto, qualcun altro cambia idea in preda agli scrupoli, le storie di intrecciano o prendono pieghe impreviste sotto lo sguardo forse impassibile – o forse no- dell’Uomo senza nome.

Da premesse potenzialmente esplosive parte il nuovo film di Paolo Genovese, regista pluripremiato reduce dal grande successo di “Perfetti sconosciuti”, che dirige e scrive un’altra opera corale con attori con cui aveva già collaborato, tutti volti di primo piano del cinema italiano: da Alba Rohrwacher ad Alessandro Borghi, da Marco Giallini a Rocco Papaleo, passando per Vittoria Puccini e Sabrina Ferilli. Con “The Place” Genovese rielabora nella forma del lungometraggio la serie americana “The Booth at the End” condensandone – con qualche variazione- in 105 minuti le due stagioni scritte da Christopher Kubasik.

La storia si presenta come una riflessione condotta agli estremi sulla morale, sull’(auto)imposizione dei limiti e sul loro superamento, sulla conoscenza/coscienza di sé e sull’esistenza della libertà di scelta e le sue conseguenze. “The Place” ha di per sé dei risvolti esistenziali, quasi fantascientifici (l’onnipotenza e l’onniscienza dell’Uomo/Mastandrea), si carica di un’ambiguità di fondo che costituisce il nerbo del film, giocando sulla soggettività tanto delle scelte dei personaggi quanto del racconto che di tali scelte essi stessi fanno.

Genovese affronta le ossessioni, i sogni di uomini e donne di oggi e riprende il tema della morale nei rapporti umani, inserendo richiami ad argomenti forti e più che mai attuali come quello del terrorismo fai-da-te o della violenza sulle donne. Ma tutto sembra restare in gran parte inespresso, come se non si fosse riusciti ad andare fino in fondo al paradosso di un uomo che è Dio e il Diavolo insieme. L’atmosfera avrebbe potuto essere realmente straniante ma appare più che altro indecisa, i dialoghi sembrano non trovare un vero spessore, paiono non riuscire a toccare nello spettatore quelle corde che ci si aspetterebbe. Probabile causa è una messinscena estremamente statica e tutta confinata in un interno (a cui il regista non è nuovo) che, pur non essendo di per sé un elemento sfavorevole, qui diventa un’arma a doppio taglio perché non adeguatamente controllata.

Un gioco al massacro con la propria anima, prima ancora che con altri disperati risucchiati in questo vortice, avrebbe forse richiesto una trattazione meno teatrale e più asciutta e incisiva. Un campionario di varia umanità che si rivolge a un uomo inconoscibile interessato alle sensazioni e ai pensieri dei suoi clienti a fronte di richieste al limite dell’umanamente sopportabile, diventa in “The Place” un affresco forzato e poco coinvolgente di una società alla deriva.

Il cast tutto dà il meglio di sé e ci crede. Noi un po’ meno.

Voto: 5,7

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