Recensione – Con il suo primo lungometraggio il regista ceco Slávek Horák racconta la storia dell’infermiera a domicilio Vlasta, generosa e disponibile verso pazienti e familiari non sempre riconoscenti, che scopre di avere un tumore all’ultimo stadio, decidendo allora di riprendere in mano la propria vita. Un film sul ‘coming of age’ semplice e toccante, ironico nonostante tutto, che ci ricorda che non è mai troppo tardi per iniziare ad amare noi stessi.

Vlasta (una straordinaria Alena Mihulová, premiata come migliore attrice nella 50^ edizione del festival di Karlovy Vari) è un’infermiera che assiste a domicilio i malati di una zona rurale della Moravia. Si occupa anche del marito burbero (Bolek Polívka) e della figlia Miriam (Sara Venclovská), ormai grande e in procinto di sposarsi ma ancora segnata da un passato difficile. Altruista e generosa verso tutti, Vlasta un giorno scopre di avere un tumore al pancreas allo stato terminale e la sua vita cambia. Sconvolta e travolta – anche lei – dalla solitudine del dolore cercherà di dare nuovo senso al tempo che le resta attraverso nuove amicizie (con la pranoterapeuta e insegnante di ballo interpretata da Zuzana Krónerová) ma soprattutto attraverso la riscoperta di se stessa.

Vlasta cammina per le strade sterrate della campagna morava con passo allegro e spedito, sotto la pioggia, nel fango, con ogni tempo. Ha un mazzo di chiavi pesante che apre le porte di casa (e delle solitudini) di tutti i suoi pazienti. Si muove sempre con due borsoni stracolmi di medicine per i malati che accudisce non sempre ricambiata dalla gratitudine, due occhi grandi e malinconici e un sorriso sincero sulle labbra. Non si tira mai indietro quando può fare qualcosa per gli altri: per i suoi pazienti innanzitutto, per il marito Láda rude e anaffettivo, per la figlia tormentata, persino per un piccolo rospo che non sa bene come attraversare la strada. Attraverso la sua storia vediamo anche un paese rurale dove la povertà è tangibile, in cui l’Europa è lontana e quando c’è si manifesta con finanziamenti di opere ai limiti dell’incomprensibile per le persone del luogo (un piccolo tunnel sotterraneo nel bosco per evitare che i rospi vengano investiti dalle auto) ma in cui il rapporto con il territorio e con la natura in particolare, sembra ancora stretto.

Così vediamo spesso la protagonista piccola e sola persa in inquadrature che abbracciano paesaggi vasti, desolati e selvaggi allo stesso tempo, in cui però il suo incedere è sempre deciso anche se le strade sembrano attraversare il nulla: la natura non spaventa ma ha, anzi, un richiamo quasi primordiale, segnando la presa di coscienza di un ritorno alle origini. Come l’incendio di un vecchio albero che è metafora della rinascita o un cerbiatto investito che, sognato in un momento di trance, diventa alter ego della protagonista stessa.

Nel suo primo lungometraggio Slávek Horák delinea una protagonista che con la sua professione incarna – un po’ didascalicamente – la completa dedizione agli altri, la disponibilità, la comprensione del dolore, salvo poi trovarsi spiazzata di fronte allo spettro della morte. Vlasta cerca allora di trovare tutta la forza d’animo e il coraggio fino a quel momento profuso per gli altri in quei metodi alternativi a cui “un’infermiera diplomata” come lei non dovrebbe credere. Questi si rivelano essere solo un palliativo per un corpo ormai irrecuperabile, sicuramente uno sguardo più attento ai bisogni e alle trasformazioni in corso nel suo io, ma soprattutto un tentativo di fuga da ciò che le sta accadendo.

“A me non servono altre vite, a me serve questa”

urla alla guru che le dice che potrà solo curare la sua anima ma il suo corpo dovrà morire. Vlasta si riscopre così a poco a poco essere umano prima e donna poi, intesse rapporti veri e profondi in cui non è solo lei a dare ma anche a ricevere, impara ad amarsi, ad accettare (molto significativa la scena in cui spiega al marito, maschilista convinto ma da lei sempre giustificato e accontentato, il funzionamento della lavatrice).

Quella di Vlasta è allora una storia di formazione femminile, un’opera sul coming of age fuori tempo massimo o, forse, proprio al momento giusto, in cui tutto avviene quando deve. Ma è anche un film sulla precarietà della vita e, paradossalmente, un’ode –semplice- a tutta la sua potenza e bellezza se vissuta nella giusta consapevolezza di sé e degli altri. L’inquadratura finale del film, ci lascia pensare. O forse,  questa volta per davvero, Vlasta è “a guardare dentro alla sua anima”.

Voto: 7

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