Recensione in anteprima – In poco più di un’ora Douglas Seok, americano di nascita ma coreano di residenza, tratteggia la storia di Kanitha, giovane ragazza che cresce in una Cambogia fintamente ancorata al passato. Film lento, riflessivo, intimo e abbastanza stucchevole.

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Phnom Penh, Cambogia. Kanitha è una ventenne iperattiva e dotata di uno spirito libero. La madre, donna di vedute tradizionaliste, la vorrebbe sposata e sistemata, mentre il padre, anziano e malato, è ormai sul punto di morire. Kanitha è una sognatrice, ama la musica pop e perde un lavoro dopo l’altro, ma dentro di sé sogna di condividere con il padre l’ultima gioia della sua vita: un ricordo d’infanzia da ripescare nella memoria e una piccola cosa da fare insieme per tornare uniti come un tempo.

Durante la scorsa edizione del Torino Film Festival, quella del 2015, avevamo assistito alla proiezione di un film cinese “A simple Goodbye”, che trattava la morte del padre vista dagli occhi della figlia. La tematica, ovviamente, non si riduce solo a questo riferimento cinematografico, di film che trattano la morte di persone care ce ne sono a migliaia e capita, che nelle rassegne festivaliere, statisticamente uno o due siano presenti.

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Il percorso narrativo anche questa volta è molto intimo, di un’intimità che, a dirla tutta, inizialmente non è di facile lettura e lascia lo spettatore un po’ smarrito. Si fatica infatti a capire la dinamica di una presentazione delle scene lasciata a una serie di tracce come fossero tracce di un cd musicale o di una vecchia musicassetta. Per chi non è pratico di panorami e bellezze architettoniche cambogiane si aggiunge anche la non immediata immersione in ambienti con ritmi e usanze diverse da quelle occidentali. Nulla, nel film, viene spiegato e viene reso più fruibile allo spettatore ignorante e ignaro.

Questa assenza di presentazione dei fatti e dei personaggi, degli ambienti e delle celebrità a contorno della storia principale ha molti difetti ma ha anche il pregio di andare direttamente a scandagliare pian piano, con approssimazioni successive, l’animo della protagonista e di quanto il dolore deve essere colmato dal ricordo e dall’avventura per l’ultimo viaggio suo e di suo padre.

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Stilisticamente il regista si affida a transizioni incrociate multiple, facendo riferimento all’acqua, e al mare soprattutto, come elemento legante dei rapporti famigliari e metafora della profondità e ampiezza del sentimento che Kanitha sta provando. La lentezza, che a un primo impatto può sembrare anche una cosa abbastanza noiosa e che rallenta oltremodo la successione delle scene, ha la funzione di descrivere anche l’operosità pressoché meccanica e senza slanci di Kanitha, come fosse impotente al susseguirsi degli avvenimenti, perlopiù negativi, della sua vita.

“Turn Left, Turn Right” risulta, alla lunga, un film troppo intimo e racchiuso in metafore e visioni di non immediata spiegazione. Il film scorre, a fatica e con qualche sbadiglio tanto da risultare più lungo di quei 68 minuti che, in realtà dura. In fondo non convince del tutto e non rimane impresso nella memoria, e nemmeno nei cuori, troppo a lungo.

Voto: 5,1

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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