Recensione in anteprima – Marco Paolini interpreta un padre il cui personaggio è costruito attraverso silenzi e sguardi nel primo lungometraggio firmato da Marco Segato. La pelle dellorso, in uscita nelle sale italiane il prossimo 3 novembre, rappresenta una novità ben riuscita per i canoni del cinema italiano.  

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Anni Cinquanta. In un villaggio nel cuore delle Dolomiti vivono Domenico (Leonardo Mason), un ragazzino sveglio ma introverso, e il padre Pietro (Marco Paolini), un uomo consumato dalla solitudine e dal vino, che per campare lavora in una cava alle dipendenze di Crepaz, un impresario sera scrupoli.

Il rapporto tra padre e figlio è aspro e difficile, i lunghi silenzi li hanno trasformati in due estranei.

Una notte la tranquillità del villaggio viene minacciata dalla presenza nella valle di un grande orso feroce, che uccide e incute un terrore superstizioso: “el diàol”, il diavolo, lo chiamano i vecchi.

Una sera all’osteria in uno scatto d’orgoglio, Pietro lancia una sfida a Crepaz: ucciderà l’orso in cambio di denaro. Il giorno seguente, all’alba, Pietro, senza dire niente a nessuno, si incammina sulle tracce dell’orso. Domenico lo viene a sapere e decide di seguirlo. Padre e figlio si immergono nei boschi, sempre più a fondo, fino ad esserne inevitabilmente trasformati. A poco a poco si riavvicinano, si riconoscono e il muro che li separava si sgretola nell’immensità della natura.

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Marco Segato, autore di documentari e regista teatrale, porta sul grande schermo La pelle dellorso, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Matteo Righetto. Il regista afferma di aver trovato nell’opera di Righetto il soggetto ideale per il suo primo lungometraggio: un viaggio al contempo fisico e spirituale, un’esperienza iniziatica per il giovane protagonista che lo spinge a riavvicinarsi al padre, con il quale ha un rapporto burrascoso.

La sceneggiatura, scritta dal regista stesso insieme ad Enzo Monteleone e Marco Paolini, offre la visione di un mondo più duro e complesso rispetto a quello narrato nel romanzo. Segato ha voluto trovare un equilibrio tra il racconto di genere, le suggestioni fantastiche e l’intimità di un difficile rapporto fra padre e figlio.

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Siamo di fronte ad un film in cui la comunicazione avviene esclusivamente attraverso le immagini. I pochi dialoghi presenti nel film, infatti, sono brevi e scarni. La psicologia dei personaggi emerge, poco alla volta, attraverso sguardi, azioni, segreti e silenzi. è uno stile che si sofferma sulla contemplazione della natura, sui piccoli gesti, sui momenti sospesi: si guarda alla vita di uomini semplici e alla loro relazione con il mondo contadino.

La durezza dei personaggi è resa da un ottimo lavoro di regia che alterna sapientemente primi piani a campi totali. La fotografia, curata da Daria D’Antonio, riesce a far emergere da una natura fredda, ostile e a tratti quasi fantastica le figure umane e, in modo particolare, i volti dei protagonisti spesso illuminati dalla calda luce del fuoco.

Quest’opera è, come afferma il regista stesso “una fiaba nera ancorata alla realtà, dove il realismo della vicenda viene spinto al limite fino a sfiorare il fantastico. Il bosco è il luogo centrale dello scontro/incontro tra padre e figlio, tra Domenico e el diàol”.

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In questo primo lungometraggio Segato ci mostra la grandezza di un giovane ragazzo che si trova a dover superare quella linea d’ombra che segna l’uscita dell’uomo dall’età dell’innocenza per entrare in quella delle grandi sfide contro i mostri della natura e dello spirito.

Il risultato è un film personale, intimo ed essenziale che osserva da vicino gli stati d’animo dei protagonisti e i loro conflitti.

Voto: 7,3 

Di Silvia

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