Recensione in anteprima – Venezia 73 – In concorso – Con un cast stellare e relegato ai margini della vicenda Ana Lily Amirpour presenta il suo secondo lungometraggio. Convince solo a tratti, peccato per una debole sceneggiatura.

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In una distesa desolata del Texas una comunità di cannibali vive in una realtà quotidiana post-apocalittica. I protagonisti sono Miami Man, Arlen , Jimmy, The Dream e The Heremit. Dopo l’opera prima A Girl Walks Home Alone at Night (2014), con protagonista una vampira in una città iraniana, la regista Ana Lily Amirpour mette in scena una comunità di cannibali con regole di convivenza e dedita a “normali” faccende quotidiane, come mangiare, parlare e persino amare. Finché qualcuno non sorpassa i limiti consentiti.

Ana Lily Amirpour, la regista iraniana, al suo secondo lungometraggio continua il suo viaggio coraggioso nel proporre una caratteristica umana disprezzabile come abitudine quotidiana di vita. In un futuro post-apocalittico che non sembra essere troppo lontano e privo di qualsivoglia comunicazione digitale o telefonica il cannibalismo è solo un’altra delle semplici e normali regole che una circoscritta comunità approva. In altra realtà sempre circoscritta e isolata, non va meglio, la droga è cosa diffusa e, anzi, ambita.

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La regista crea dei micromondi isolati che solo saltuariamente vengono in conflitto tra loro, piccole comunità nelle quali si rifugiano tutti coloro che vengono marchiati come appartenenti al “lotto difettoso”. Piccoli gruppi, organizzati dove le regole sono anche ribaltate. Dove si è (fintamente) liberi in cambio di una (reale) dipendenza da droghe o da carne, da illusioni o da protezione.

Se la regia è coraggiosa e ci mostra anche immagini crude, violente, al limite del sopportabile e che varcano un po’ lo splatter e l’horror cruento, la sceneggiatura non convince. Piena di vuoti non sempre capaci di farci percepire la desolazione di una società che sembra abituata a vedere violenza in maniera quotidiana. L’unico esempio ben riuscito di questa indifferenza è probabilmente la bambina protagonista secondaria del film, nessuna reazione nemmeno dinanzi a morti e rapimenti.

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“The Bad Batch” colpisce allo stomaco fin dall’inizio e mostra corpi mutilati, segno non tanto camuffato di una società frammentata (vedremo anche simbolicamente un puzzle non finito della bandiera americana) con delle persone psicologicamente, emotivamente e fisicamente a pezzi. Sono corpi marchiati e segnati dalla sofferenza, dalla brutalità. Una continua lotta per sopravvivere e pagare il giusto prezzo per una libertà, una tanica di benzina, un pasto.

Il film però si sfilaccia con scelte e svolte narrative discutibili, al limite del logico. Un Keanu Reeves che appare proprietario non solo di “Comfort” ma anche possessore di un harem alla Hugh Hefner, molto cool e kitsch ma poco convincente in quei (pochi) panni. Meglio il senza parola interpretato da Jim Carrey, però poco sfruttato. Come viene dilapidato in un ripetitivo personaggio semipazzoide un Giovanni Ribisi totalmente sprecato.

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Questi elementi abbassano notevolmente un giudizio che poteva essere migliore. C’erano tutti gli ingredienti per un grande film, anche di denuncia del consumismo moderno, dell’egocentrismo americano, di una società divisa, bellicosa, di un’anima e un corpo umano frammentati e sofferenti. Tutti elementi bruciati velocemente su un fuoco troppo alto. Il voler apparire un film alla “Mad Max” senza averne un background propriamente adeguato. Ulteriore difetto l’inserimento “a forza” di una pulsione sentimentale/sessuale che è solo necessità e che non si incastra per nulla in quanto il film vorrebbe dire.

Ottima colonna sonora, costituita da canzoni anche abbastanza note ai più, buona interpretazione della bella protagonista Suki Waterhouse che, a tratti mi ha ricordato la protagonista di “Reversal”. Il giudizio a caldo si raffredda e non si arriva alla sufficienza.

Voto: 5,7

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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