RecensioneStephen Frears, Judi Dench e una sceneggiatura non originale ma intensa, tanto basta per creare un gioiello di rara interpretazione e di ottima regia. Un film denso e diretto che scandaglia con garbo argomenti quanto mai attuali come l’affettività, l’amore di una madre, la fede, l’ottusità di un mondo che confonde peccati e peccatori.

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Irlanda, 1952. Philomena Lee, ancora adolescente, resta incinta. Cacciata dalla famiglia, viene mandata al convento di Roscrea. Per ripagare le religiose delle cure che le prestano prima e durante il parto, Philomena lavora nella lavanderia del convento e può vedere suo figlio Anthony un’ora sola al giorno. A tre anni Anthony le viene strappato e viene dato in adozione ad una coppia di americani. Per anni Philomena cercherà di ritrovarlo. Cinquant’anni dopo incontra Martin Sixmith, un disincantato giornalista, e gli racconta la sua storia. Martin la convince allora ad accompagnarlo negli Stati Uniti per andare alla ricerca di Anthony. Il film è tratto dal libro di Martin Sixsmith, “The Lost Child of Philomena Lee”.

Philomena_2Molti degli addetti ai lavori considerano la sceneggiatura di “Philomena” tra le migliori degli ultimi anni, alcuni la reputano talmente corretta, precisa, equilibrata da portarla come esempio di studio per chi si vuole avvicinare alla sceneggiatura cinematografica. Io credo che tutti questi elogi siano fondati e il film ha giustamente vinto il premio come miglior sceneggiatura alla 70° Mostra del cinema di Venezia. Purtroppo non ha raccolto di più mentre poteva benissimo essere premiata Judi Dench per l’interpretazione femminile e il film con il leone d’oro, ma questa, ormai, è storia.

E’ raro trovare un film di cosa prorompente carica emotiva ingabbiata ma soprattutto controllata nella più classica pacatezza degli atteggiamenti britannici. Philomena, la protagonista ne è un perfetto esempio. Derubata del suo amore più grande, il figlio, non smette mai di pensarci, e lo fa col cuore, mai con la testa, non si abbandona mai al pensiero imperante e una Judi Dench assolutamente straordinaria ne sottolinea con lo sguardo, con l’intonazione, con il ritmo dei movimenti tutti i più piccoli dettagli. Non è facile trovare un’interpretazione così aderente al personaggio e si consiglia di vedere il film in lingua originale, non perché il doppiaggio non meriti ma perché il suono, il tono della voce della Dench non tradisce mai il personaggio e l’attrice da corpo, anima e passione.

philomena3Gli attori sono aiutati da una sceneggiatura che non si lascia andare alla banale retorica o alla lacrima facile, ogni lacrima viene sudata, motivata, argomentata non solo con le parole ma con le situazioni, i colpi di scena, i flashback di una vita vissuta e persa, cercata e mai trovata, inseguita e mai raggiunta. La vicenda si mantiene sempre abbastanza lontano dalla pesantezza nella quale si poteva facilmente scivolare. Si ha sempre l’idea di vivere le emozioni dei personaggi, le loro sensazioni, le loro riflessioni, le loro paure, le loro convinzioni. Se di Judi Dench abbiamo parlato benissimo, sicuramente si può far quasi altrettanto per Steve Coogan qui anche sceneggiatore. I due sono dichiaratamente agli opposti come quel romanzo citato da Philomena “la scarpetta e lo zoccolo del cavallo”, lei la scarpetta così leggera e sognatrice ma con i piedi per terra, lui così saldo nel reale ma pronto sempre allo scatto, alla corsa e ne è un’immagine estremamente semplificativa la corsa quotidiana che Martin effettua ogni mattina.

Alcuni han interpretato questo film come un’accusa del regista al cattolicesimo ma non è così, non è un’accusa alla religione ma a chi la gestisce in modo arbitrario e fuori da ogni logica di carità cristiana. Troppo spesso legato alle regole e a non infrangerle tanto da pronunciare sentenze e condanne confondendo il peccato che va espiato dal peccatore che va non solo accolto ma perdonato e aiutato. Philomena infatti si dimostra una donna di fede, una fede salda e che traspare dalla sua vita semplice. Lotta con l’ateo/laico/cristiano tiepido Martin e lo fa sempre all’interno del recinto dei suoi ideali, del suo essere grata per ogni cosa che le accade di meraviglioso proprio perché ha conosciuto la privazione per tutta la vita di qualcosa, anzi di qualcuno che rappresenta ancora la meraviglia più grande.

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Nello spettatore la rabbia affiora, vuoi perché noi siamo anche latini, vuoi perché la vicenda tocca le corde degli affetti, dell’affetto più grande di una madre per il proprio figlio e per l’interpretazione dei due attori sempre coinvolgenti. Un film che va visto, non insegna nulla, fa conoscere una storia, una storia vera (anche se con qualche ovvia licenza poetica), una storia che non dovrebbe e non deve più accadere.

Voto: 8,3

Di Giuseppe Bonsignore

Fondatore di Cinematik.it nel lontano 1999, appassionato di Cinema occupa il suo tempo impiegato in un lavoro molto molto molto lontano da film e telefilm. Filmaker scadente a tempo perso, giornalista per hobby, recensore mediocre, cerca di tenere in piedi la baracca. Se non vede più di 100 film (al cinema) all'anno va in crisi d'astinenza.

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